(articolo pubblicato su Artkey n°6 - settembre/ottobre 2008)
“Creatività e produzione culturale. Un paese tra declino e progresso”: è questo il titolo del quinto Rapporto Annuale di Federculture presentato il 15 luglio al MiBAC, ma a ben leggere pare che il declino sia inesorabile e il progresso una chimera. Il Rapporto si basa principalmente su dati statistici forniti dagli enti più autorevoli: Istat, Eurostat, Unctad e da The Art Newspaper e la realtà che presenta non è certo delle più rosee. Il nostro Paese si caratterizza per essere ancora affascinante, in grado di attrarre una discreta porzione del turismo culturale mondiale ma risulta poco competitivo, statico sulle proprie – ormai vetuste – eccellenze e scarsamente in grado di produrne di nuove. Secondo il World Economic Forum l’Italia si posiziona al quarantaseiesimo posto nella classifica mondiale della competitività, nonostante i media inducano a credere che l’Italia sia ancora una grande nazione – non lo dimostra forse la partecipazione ai maggiori politcal summit? Eppure anche la nostra presenza in seno agli organi sovranazionali trova giustificazione solo nelle radici storico-contemporanee. Attualmente l’Italia produce poco (quindicesimo posto per la produttività sul lavoro) e investe meno: gli investimenti in ICT (Information and Communication Technology) e in R&D (Research and Development) non sono sufficienti, i nostri atenei - un tempo punta di diamante di un sistema culturale complesso - risultano poco competitivi sul mercato globale e il capitale monetario destinato allo sviluppo del capitale intangibile (risorse umane, formazione continua, knowhow) non è adeguato al sistema internazionale.
Per ciò che concerne il campo della creatività, inoltre, le incongruenze risultano enormi: l’Italia è il secondo paese esportatore di creative goods (il primo è la Cina) e la spesa nazionale dei consumi culturali, seppur minore a quella della maggioranza dei paesi UE, è in costante aumento.
Per contro la maggior alfabetizzazione culturale e la crescita della domanda di cultura portano alla prassi ormai consolidata della fuga dei cervelli: non solo i ricercatori e i laureati, ma anche gli artisti, i manager culturali, i critici e gli storici trovano più appagante recarsi all’estero (6.000 “cervelli” emigrano ogni anno solo verso gli Stati Uniti)
Lo spaccato che ne deriva è tristemente allarmante, tristemente per le famiglie ed allarmante per gli enti pubblici e le organizzazioni culturali che con tali realtà debbono fare i conti.
Qual è il problema del Bel Paese? In un momento di crisi economica generale c’è bisogno di creatività e cultura o gli interessi degli amministratori si spostano su altre emergenze ritenute più urgenti?
La lacuna lasciata dalla diminuzione dei contributi pubblici non è stata (come auspicato dagli ottimisti) riempita dagli interventi dei privati che si trovano a fare i conti con una crisi economica generalizzata e con scarsi incentivi alla partecipazione. La legislazione frammentata e poco organica e la materia fiscale poco attenta (se non negli ultimi anni) alla promozione dello sviluppo di un sistema sinergico non permettono al complesso delle attività culturali di decollare massimizzando le proprie potenzialità.
Inoltre, è ancora troppo forte il legame con il patrimonio: la tutela delle eredità culturali, in un paese che vanta una ricchezza storico-artistica di rilievo, diviene un limite allo sviluppo di nuove emergenze artistiche. Anziché fungere da input per il progresso, il nostro heritage consente agli amministratori pubblici di stare comodamente seduti sugli allori, vantandosi delle glorie di un fulgido passato, che a loro non si deve e che diviene freno anziché motore di sviluppo. Non si investe su nuovi talenti, non si propone un sistema di Economia della Conoscenza, nonostante l’appartenenza all’UE che di tale economia vuole farsi promotrice. La scelta della Comunità Europea, precorritrice dei tempi, si basa sulle ormai consolidate teorie che riconoscono la Cultura come risorsa imprescindibile alla crescita economica, volano dello sviluppo e calamita in grado di attrarre risorse eterogenee; in Italia invece ancora troppo spesso questa viene connessa al concetto di tempo libero.
In un sistema stantio che sa di naftalina, le manovre previste dall’attuale governo non porteranno certo quella ventata di aria fresca di cui si sente la necessità: la previsione triennale annunciata da Tremonti toglierà al settore ben 900 milioni di euro, rischiando di metterlo in ginocchio. Senza contare che per finanziare i tagli dell’Ici già 150 milioni di euro destinati allo spettacolo e al paesaggio hanno preso il volo.
Non si può confidare nell’intervento privato, sia perché coprire tali ammanchi sarebbe impensabile, sia perché è comunque compito del settore pubblico partecipare. Non si tratta di una partecipazione semplicemente legata alla tradizione italiana (tra le prime al mondo a varare una legislazione per la conservazione e la tutela prima e per la valorizzazione poi) ma si tratta di voler stare al passo con i tempi ed essere ancora competitivi.
Le politiche pubbliche che non tengono conto di tali valutazioni sono politiche miopi, sorpassate e non in grado di concepire reali strategie di rilancio del settore culturale e del Paese.
Tali strategie utili alla crescita della nazione e dei suoi abitanti avrebbero, come è ovvio, un notevole impatto sul turismo, interno ed esterno.
Il Rapporto Annuale riporta come, nonostante la crisi del turismo statunitense e l’aumento dei prezzi, l’Italia sia ancora un paese affascinante in grado di attrarre visitatori stranieri. I dati elaborati da Federculture e forniti dal Country Brand Index, stimano che l’Italia si trovi al quinto posto della “classifica mondiale per attrattività e grado di notorietà internazionale”. Secondo questo parere - che si basa però non su dati statistici ma sul semplice, per quanto autorevole, giudizio di “operatori, esperti del settore e viaggiatori” - lo Stivale è al primo posto per patrimonio artistico e al secondo per patrimonio storico (dopo l’Egitto). A chi si occupa dell’argomento questi giudizi fanno sempre un po’ sorridere, considerato che ancora per molti è assodata la diceria che vuole l’ottanta per cento del patrimonio artistico mondiale in Italia.
Calcolare il patrimonio artistico della Terra resta un concetto elastico, non verificabile e legato all’appartenenza di alcune nazioni all’Onu e di conseguenza all’Unesco. Non risulta che qualcuno, ad oggi, abbia mappato il pianeta, né appare univoco il concetto di bene culturale. Inoltre stime come questa non fanno che giustificare l’atteggiamento di cui si è scritto di maggior attenzione al passato che al futuro. Ciò certo non favorisce lo sviluppo di creatività né il settore dell’arte contemporanea, ancora in mano a poche istituzioni e legato perlopiù a grandi eventi blockbuster.
In conclusione, il Rapporto Annuale di Federcultura, per la quinta volta, è lo specchio del sistema paese, troppo arretrato ma in possesso delle carte giuste per poter giocare una nuova partita. Consegnato nelle mani del Ministro Sandro Bondi, speriamo non resti una Cassandra inascoltata.
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Caro Roberto Grossi, il documento consegnato nelle mani dell’On. Sandro Bondi fornisce un ritratto desolante dell’Italia che risulta un Paese troppo legato alle proprie tradizioni e poco aperto agli investimenti in innovazione e creatività. Purtroppo dobbiamo constatare che i risultati presentati non stupiscono, confermano anzi quanto già temuto e ne offrono l’ordine di grandezza numerico. Posto che la situazione economica globale non permette alla Pubblica Amministrazione di erogare quanto necessario e posto altresì che i nuovi investimenti sono la determinante linfa vitale per lo sviluppo della nazione, vorrei approfondire con lei alcune riflessioni.
Susanna Sara Mandice: Attualmente gli equilibri sui quali le politiche si basavano sono in crisi: gli Stati Uniti sono in recessione e le nuove potenze che si affacciano sulla scena deterranno presto gli strumenti per una nuova economia industriale dalla quale l’Europa è tagliata fuori. L’Unione si adopera per identificare nuovi settori nei quali eccellere e pare avere individuato nell’Economia della Conoscenza gli strumenti adatti. Come può l’Italia inserirsi in questo nuovo contesto e in quali campi? Come possiamo lavorare al meglio con le risorse che abbiamo per aderire - non solo formalmente - al trattato di Lisbona? Roberto Grossi: Nell’ambito internazionale non a caso sono proprio i paesi che hanno scommesso di più su cultura, creatività e nuove produzioni - con programmi incisivi, interventi articolati, legati allo sviluppo delle industrie creative e alla valorizzazione dei territori - a guidare le classifiche della competitività. L’Italia, invece, che proprio grazie al Made in Italy ha saputo coniugare la creatività con la produzione industriale ed è riuscita a occupare un posto di rilievo nel mercato mondiale, oggi fatica ad adeguare le strategie di rilancio alle sfide imposte dalla competizione della società globale nell’Economia della Conoscenza. Si può invertire la tendenza, ma solo qualora la politica nazionale si renda conto che investire su istruzione, reti e sostegno alla creatività e alla conoscenza è una priorità assoluta per il Paese. La concorrenza di nuovi paesi, Cina e India per ora, è principalmente basata sulla produzione dei beni. Dobbiamo assolutamente evitare che, a causa delle nostre incapacità e miopia, tale concorrenza si applichi anche nel campo della conoscenza. Grazie all’Europa, al suo fertile contesto, al confronto e allo scambio, l’Italia può recuperare una posizione di rilievo internazionale, reinterpretando quel ruolo che l’ha resa nota in tutto il mondo nei secoli passati: culla di arte, cultura e saperi.
S.S.M. La Pubblica Amministrazione si ritira dalla scena investendo sempre meno e tagliando i pochi fondi già stanziati per il settore culturale. I privati incominciano timidamente a investire, ma sono ancora incerti. È pur vero che i singoli sarebbero maggiormente propensi a investire se ci fossero una più solida “rete di sicurezza” e un sistema di incentivi valido. Quali strumenti di politica economica potrebbero rivelarsi utili e favorire l’intervento dei privati? Basta l’abbassamento dell’IVA? Quale paese prenderebbe a modello? R.G. Sicuramente la riduzione dell’IVA, in particolare per il settore dello spettacolo, può essere un provvedimento utile. Ma sarebbe anche positivo un avvicinamento al modello anglosassone che promuove largamente, attraverso politiche di incentivazione fiscale, la partecipazione dei privati al sostegno della cultura. In Italia in questa direzione ancora bisogna fare molto per stimolare gli investimenti privati ma anche i contributi dei cittadini. La norma relativa alla defiscalizzazione della liberalità per la cultura delle persone fisiche, introdotta nel 2005, in soli due anni ha infatti mostrato un enorme potenziale. Basti pensare che nel 2007 le erogazioni liberali delle persone fisiche hanno quasi raggiunto quota 20 milioni di euro, con un incremento rispetto all’anno precedente del 70%. Ma sarebbe anche importante individuare soluzioni di carattere compartecipativo e associativo che consentano ai piccoli operatori di portare avanti progetti potendo accedere ad esempio a un sistema di micro-credito agevolato.
S.S.M. Le istituzioni culturali spesso non risultano all’altezza della situazione: il problema non è solo il museo contemporaneo, ma è il museo che vive nella contemporaneità. Si accusa il Governo di non investire in innovazione e ricerca, ma ben poche organizzazioni sviluppano nuove prospettive. Forse è necessario un ripensamento del proprio ruolo… Come possiamo offrire un sistema culturale di qualità? R.G. Si tratta, anche qui, di intervenire per cambiare una mentalità e un approccio ancora poco volto alle nuove frontiere dell’espressione artistica. Il nostro Paese ha bisogno di interventi che possano contribuire a tracciare la strada per far uscire l’Italia dalla cronica mancanza di sostegno alla creatività e di risorse destinate alla produzione culturale contemporanea e all’innovazione, svecchiare una visione frammentata del ruolo della cultura (soprattutto con riferimento alle altre politiche settoriali delle amministrazioni). Per queste carenze di fondo molti settori produttivi del nostro Paese perdono terreno sul piano della competitività e della qualità. Nel design, nella ricerca applicata, nell’enogastronomia, siamo sempre stati all’avanguardia nel mondo. Ora rischiamo pericolosamente di rimanere fuori dalla “contemporaneità” perché scarsamente innovativi. Su questo piano anche il sistema delle imprese deve mostrare più coraggio e innovazione.
S.S.M. La cultura italiana e il Made in Italy possono attrarre un turismo sempre più attento ed esigente. Il patrimonio artistico italiano attraversa quasi tutte le epoche storiche. Può anche l’arte contemporanea divenire traino per l’economia e il turismo culturale? Su quali eccellenze possiamo far leva e a quali criticità dobbiamo prestare attenzione? Come si può supportare il modello italiano, renderlo maggiormente efficace e permettergli di decollare? R.G. L’Italia sconta una visione della cultura ancora identificata quasi esclusivamente con la conservazione del patrimonio artistico, o piuttosto legata al tempo libero, quasi sempre considerata una spesa più che un investimento, che non comprende la reale portata della creatività come forza trainante dell’economia. Cultura, creatività e innovazione, come ha dimostrato per anni il Made in Italy, sono invece formidabili strumenti di produttività e sviluppo, oltre che fattori di competitività nello scenario della sfida della globalizzazione. Ma affinché la cultura sia veramente fattore di sviluppo è fondamentale porre al centro il tema della gestione. Le cosiddette gestioni autonome di attività e servizi culturali e dello spettacolo, nate e cresciute nell’ultimo decennio, hanno dimostrato come una gestione efficiente ed efficace anche in questo settore sia possibile. Per questa via è stato possibile in molte realtà riorganizzare i servizi e l’offerta andando incontro alle esigenze di fruizione dei cittadini e aumentando l’attrattività di città e territori anche verso l’estero e quindi in chiave di sviluppo del turismo.
S.S.M. Richiamare i turisti però non basta: è altresì fondamentale offrire cultura ai propri cittadini. Il rapporto da lei curato evidenzia come in Italia i consumi culturali registrino un costante aumento, soprattutto nelle regioni del nord. La maggior alfabetizzazione culturale fa crescere la domanda, in particolar modo tra i giovani. Cosa cerca il fruitore di arte e in particolare il fruitore di arte contemporanea? A chi il ruolo di formare, educare e stimolare le nuove generazioni? R.G. Da diversi anni nel nostro Paese la fruizione culturale registra numeri in crescita, il 2007 è stato l’anno record per le presenze alle grandi mostre (in tutto 7 milioni di persone hanno visitato le mostre sparse per la Penisola), mentre il mercato dell’arte ha avuto un giro d’affari di 1,8 miliardi di euro. Ma nello stesso tempo si è parlato di ipertrofia patologica delle proposte di scarsa qualità che lasciano poco o nulla dietro di sé e di musei luna park. Il rischio cui stiamo andando incontro è quello di commercializzare il prodotto culturale secondo logiche esclusivamente orientate al mercato e di trasformare l’arte e la cultura in intrattenimento. Bisogna, invece, lavorare sulla qualità dell’offerta, ma anche puntare a formare una nuova domanda “evoluta” attraverso un miglior sistema educativo, una maggiore concorrenza del sistema universitario, un forte impegno nella formazione, ma anche una politica culturale che torni ad investire sui talenti, valorizzare la produzione artistica e culturale nazionale.
S.S.M. Il modello dei distretti culturali proposto da alcuni economisti italiani sulla falsariga del modello dei distretti industriali del nordest, si è rivelato un abbaglio. Il sistema culturale, per essere tale, deve avvalersi di strumenti imprescindibili: comunicazione, tutela educativa, condivisione delle conoscenze, formazione continua… In Italia un modello del genere ancora non ha preso piede. A suo avviso quali sono le ragioni? Come si può modificare la situazione esistente? R.G. L’unico vero modello di “distretto culturale” esistente in Italia è quello dei Parchi della Val di Cornia, prima esperienza di gestione autonoma d’impresa pubblico-privata di parchi naturali, archeologici e musei in un territorio di sei Comuni (nell’alta Maremma) che l’hanno inizialmente voluta e che oggi ne sono gli azionisti per circa il 90%. Grazie a valide scelte di investimento, alla gestione innovativa dei servizi culturali, all’attenzione verso i servizi di accoglienza, sono stati prodotti risultati eccellenti raggiungendo una quasi totale capacità di autofinanziamento. Ma proprio questa esperienza dimostra che determinati modelli funzionano se nascono “spontaneamente” nei territori stessi da esigenze e con progetti reali. Viceversa, anche il modello astratto dei distretti culturali è destinato al fallimento se calato dall’alto senza un concreto raccordo con le peculiarità di ogni realtà cui lo si vorrebbe applicare e se non nasce da un preciso progetto di sviluppo territoriale.
S.S.M.Il nostro magazine, attraverso la sua attività on line e su carta, è impegnato nella ricerca e nella definizione di un modello alternativo per la formazione di utenti su larga scala del sistema culturale. Nel panorama attuale il ruolo della Pubblica Amministrazione non sarà più quello di ente erogatore. Piuttosto che lamentare la mancanza di fondi, si potrebbe iniziare a ipotizzare una disposizione degli elementi diversa, nella quale il ruolo della politica muti radicalmente. Per esempio potrebbe fungere da start up, dettando le regole all’interno delle quali gli altri stakeholder potrebbero muoversi… Ministero; enti pubblici, privati e misti; gallerie, collezionisti dovrebbero cominciare a pensare al sistema come a una rete. Qual è la sua opinione? Possiamo cercare di delineare questo modello? Come potrebbero essere ridefiniti i ruoli dei diversi attori in gioco? R.G. Occorrerebbe un “nuovo corso” nel quale vengano abbandonate le analisi ormai stereotipate di una parte del mondo accademico sull’Economia della Cultura, sulla sterile quanto inutile contrapposizione concettuale tra pubblico e privato nella gestione dei servizi culturali e di quella tra tutela e valorizzazione o ancora nella diatriba tra centralismo statale e autonomie locali. E occorrerebbe da parte delle forze politiche, ma anche delle istituzioni, del sistema delle imprese e degli operatori, riconsiderare scelte politiche, comportamenti, priorità sui grandi temi della creatività e della cultura. Istituzioni, Stato, regioni, enti locali, mettano al centro un grande progetto riformatore che renda concreto, nelle scelte di investimento, nelle leggi, nelle procedure e strumentazioni operative, il dettato costituzionale dell’articolo 9, che ci pone ancora all’avanguardia nel mondo, stabilendo contemporaneamente quale fondamento della vita economica e sociale la tutela del patrimonio e la valorizzazione della cultura e della ricerca. Bisogna ripartire da questi princìpi fondamentali per affrontare scelte coraggiose e lungimiranti. Insieme al sistema delle imprese, alla rete dei gestori pubblici e alle tante esperienze vitali degli operatori. Guardando soprattutto ai giovani e alle loro energie creative.
S.S.M. Mi piace concludere con una citazione, che avrei piacere lei commentasse. A proposito della crescita di un paese, il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha recentemente scritto: “La risorsa più preziosa di un paese è la sua popolazione e di conseguenza è essenziale far sì che tutti, proprio tutti, possano vivere al massimo delle proprie potenzialità, il che richiede opportunità educative per tutti”.[1] R.G. La citazione è ovviamente del tutto condivisile. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, non è certo il capitale umano che manca, quanto piuttosto la capacità di valorizzarlo e impiegarlo. Il quadro che abbiamo davanti è, purtroppo, piuttosto desolante: nelle nostre università i professori sotto i quarant’anni rappresentano solo il 17% del totale, i concetti di merito e di qualità sono un miraggio e, d’altra parte la percentuale dei diplomati in Italia è di 10 punti più bassa della maggioranza dei paesi europei, mentre quella dei laureati (16%) supera di poco la metà della media dell’Unione. Basti poi pensare al drammatico fenomeno della “fuga dei cervelli” (in 6.000 ogni anno lasciano l’Italia per gli Stati Uniti). Il collasso del processo di valorizzazione dei talenti e il sottofinanziamento cronico della cultura e della ricerca in Italia bruciano, così, uno straordinario patrimonio di intelligenza. Mandando in fumo le possibilità di modernizzazione del sistema produttivo e del Paese intero. Bisogna investire nella formazione e nella ricerca. Solo in questo modo l’Italia coltiverà i talenti che saranno le professionalità del domani in grado di guidare lo sviluppo, anche culturale, del Paese.
[1] La Repubblica, lunedì 11 agosto 2008, pagg. 1 e 27
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