(articolo pubblicato su Artkey n°8 - gennaio/febbraio 2009)
Andrea Pizzi. Classe 1970. Avvocato. Membro UIA (Union Internationale des Avocats) Paris, membro ABA (American Bar Association), USA. Dal 2005 è presidente della Commissione Diritto dell'Arte UIA. Opera nel settore attraverso una propria rete di avvocati nel mondo. Organizza seminari e conferenze internazionali per approfondire e discutere le problematiche relative al diritto dell'arte (Salvador de Bahia 2006, Parigi 2007, Bilbao 2008, Bucarest 2008, Malaga 2009).
--
Susanna Sara Mandice: L’“Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei Musei” approvato con DM 10 maggio 2001 ha introdotto i cosiddetti standard museali la cui diffusione obbligatoria avrebbe dovuto sancire livelli qualitativi minimi e maggior omogeneità - anche con istituzioni straniere che adottano strumenti di riconoscimento simili -. Eppure la situazione attuale è ancora carente: numerosi istituti non hanno neppure un proprio statuto. La normativa è di fatto irraggiungibile? Fatte le regole, come si può agevolarne l’attuazione?
Andrea Pizzi: Nella tradizione giuridica italiana la tutela si estendeva sul patrimonio artistico e culturale nella sua interezza, a prescindere da chi e da come fosse posseduto. I musei ne erano semplicemente parte, carenti se non addirittura mancanti di autonoma identità: unità funzionali di sovrintendenze, diramazioni di assessorati comunali, etc. L’idea sociale di museo non trovava una diretta corrispondenza giuridica.
La struttura tipica del museo italiano era dunque il museo-ufficio, struttura che comportava evidenti limiti alla capacità di espressione dello stesso, anche in relazione all’attività delle istituzioni straniere, omologhe solo in apparenza.
L’occasione per un cambiamento è stata colta sull’onda del trasferimento delle particolari competenze dalla gestione statale a quella locale. In tale situazione si voleva evitare che, a causa di tale trasferimento, la tutela del patrimonio culturale ne uscisse affievolita. Da qui la ricerca di standard comuni per il funzionamento del museo e la conservazione, fruizione e valorizzazione delle collezioni. Ci si è voluti aprire anche alla migliore prassi internazionale (AAM, Codice deontologico ICOM, etc.) adattandola alle peculiarità italiane.
Criteri e regole per definire i requisiti necessari all’esistenza del museo e al suo funzionamento. Fu convenuto che tali criteri dovessero trovare applicazione non solo in caso di trasferimento di competenze ma anche nella gestione di ogni museo. Standard ineludibili (conservazione, sicurezza, prevenzione del rischio) e c.d. linee guida (promozione, valorizzazione, etc.).
La normativa non è però sufficiente a produrre il cambiamento sperato.
Gli standard sono stati considerati sin dall’inizio una grande opportunità per costruire una cultura della gestione museale in Italia, un salto di qualità da porre in essere attraverso regole comprese e condivise.
Più che un’innovazione una rivoluzione. Lo scenario culturale è maturo per questo. Difettano però i mezzi.
In altre realtà internazionali si è arrivati a codificare metodologie già in essere da molto tempo, per uniformarle.
Nel caso italiano è calato dall’alto un sistema di criteri che, per quanto conosciuto e approfondito, era in massima parte estraneo al nostro concreto sistema museale. Ben venga, ma senza adeguate risorse per sostenere il processo di innovazione e adeguamento manca la concreta possibilità di applicazione, non la volontà.
Come possono molti musei raggiungere obiettivi a carattere strutturale, comportanti rilevanti investimenti finanziari, quando hanno budgets risibili rispetto a istituzioni similari estere? Stessa cosa dicasi per standard inerenti una maggiore qualificazione del personale: come attuarli attraverso organici cronicamente sottodimensionati che già fanno miracoli?
Se la migliore esperienza maturata in decenni dalle istituzioni straniere viene imposta nel medio-breve periodo ai nostri musei attraverso una normativa prescrittiva e senza un’adeguata politica di sostegno, il sistema degli standard è destinato a diventare inapplicabile.
Tornare indietro non si deve. Occorre ricercare il giusto equilibrio. Raggiungere quanto meno requisiti minimi e avviare un percorso di crescita qualitativa nel medio periodo attraverso comportamenti condivisi. Gli standard devono essere realistici.
S.S.M. Recenti studi socio-economici hanno dimostrato l’inesistenza di distretti culturali calati dall’alto secondo logiche di governance top down. È pur vero che solamente politiche pubbliche lungimiranti e attente possono dar vita a una gestione culturale efficace e generativa. Compito della P.A. è quindi indirizzare le politiche culturali astenendosi da un’azione invasiva. Come si può garantire tale equilibrio e quali sono, a suo parere, le politiche da intraprendere per rendere nuovamente dinamico il settore?
A.P. È opportuno che il distretto culturale nasca dalla realtà dei fatti e che non sia disegnato con la matita dall’alto. Certo, è necessaria una politica di incentivazione alla gestione associata ma senza l’imposizione di assetti organizzativi predeterminati. Partendo da reti informali e di adesione volontaria, la successiva esperienza di cooperazione indicherà l’opportunità o meno di stabilizzare la rete. Le esperienze positive ben potranno costituire un modello organizzativo di riferimento per ulteriori nuove iniziative. La stabilizzazione di una collaborazione nel settore culturale idonea a diventare “distretto” richiede la presenza di almeno tre elementi. In primo luogo idonee competenze istituzionali per la complessità degli interventi amministrativi da porre in essere e per la pluralità di organismi pubblici coinvolti tra Stato e autonomie. In secondo luogo un’adeguata dotazione finanziaria, anche per la via del co-finanziamento da parte delle pubbliche amministrazioni coinvolte, fondi di provenienza privata o di istituzioni quali le fondazioni ex bancarie. In terzo luogo occorrono opportune conoscenze tecniche, anche relative all’attività di organizzazione, gestione e fruizione dell’iniziativa culturale. Per cercare una soluzione di continuità col passato, in relazione a troppe contribuzioni finanziarie sprecate senza risultati concreti, meglio sarebbe non finanziare la costituzione del distretto ma finanziare invece i successivi progetti ben strutturati che il distretto dovesse porre in essere.
S.S.M. Devoluzione, autonomie locali, trasferimento di poteri. Il “piccolo” conosce le proprie possibilità (punti di forza e punti di debolezza), il territorio nel quale opera, gli stakeholders e le urgenze. Il “grande” ha una visione d’insieme più ampia. In un quadro legislativo in trasformazione, quale modello auspica per il nostro Paese?
A.P. L’applicazione di standard museali realistici, il sostegno a distretti culturali creati sulla base di sinergie e collaborazioni concrete e non imposte dall’alto.
Per le regioni la “devolution” sui beni culturali può essere senz’altro un’opportunità, che deve ovviamente riflettersi in un’opportunità per la comunità dei cittadini. Deve essere gestita nel dovuto modo e deve essere l’occasione per migliorarsi.
Diverse regioni quali Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Toscana hanno sicuramente le capacità per gestire al meglio una devoluzione nell’ambito dei beni culturali. Altre, invece, potrebbero avere difficoltà nell’approntare una macchina organizzativa idonea. Il rischio è quello di avere due “Italie” dei beni culturali o, peggio, venti. Per scongiurare questo pericolo è importante porre in essere elaborazioni comuni tra autonomie e Stato, un quadro condiviso. Visto che lo Stato gestisce circa 500 strutture museali sparse sul territorio nazionale, caso unico in Europa, è importante che questa rete sia comunque integrata e coordinata con la gestione regionale e con i sistemi locali, con veri e propri piani di valorizzazione “cooperativa”.
Un uso efficiente delle risorse e un coinvolgimento equilibrato dei privati potrebbero portare a migliorare l’azione amministrativa e, di conseguenza, a migliorare la fruibilità dei beni culturali sul territorio.
Non bisogna dimenticare che in una situazione di devoluzione, la Regione non diventa un semplice gestore di beni culturali, ma arriva praticamente ad assumere una responsabilità di “governo” al riguardo.
S.S.M. Qualche anno fa, tra il serio e il faceto, si parlò di vendere il Colosseo e le spiagge; oggi il comune di Torino promette di aumentare l’autonomia delle fondazioni che gestiscono alcuni tra i palazzi storici della città, tra i quali il Teatro Regio, croce e delizia della capitale sabauda. Gli sketch anni Sessanta di Totò non fanno più sorridere e,tra chi dice che i gioielli di famiglia non si toccano e chi vuole alienare anche parchi e giardini, la confusione e il panico regnano sovrane. Eventuali nuove forme di gestione quali rischi presenterebbero? E quali vantaggi?
A.P. Personalmente vedo più rischi che concreti vantaggi, non per il sostegno dei privati in sè, ma per come questo può essere oggi concepito. Apprezzo molto l’attività di tante fondazioni che nel Paese aiutano concretamente. Occorre però fare ordine. Il patrimonio culturale dello Stato e degli enti locali va conservato e tutelato e ne deve essere permessa la migliore fruizione. Questa complessa attività deve fare i conti con la scarsità di risorse, che rende problematica la gestione. La soluzione è da ricercarsi nel migliore sostegno, non nello scambio economico. Sono contrario a ipotesi di c.d. “deacessioning”. Sono contrario all’ingresso dei privati nel sistema dell’arte pubblica. Sono proprio diversi gli scopi. La carenza di mezzi può imporre alle amministrazioni di ricercare l’aiuto esterno, che mai deve tradursi in condivisione o cessione. Ben vengano gli atti di liberalità. Nulla in contrario anche a intitolare sale o strutture alla memoria dei benefattori che ne possono aver permesso la costruzione, la ristrutturazione o che le hanno riempite di opere d’arte donate. Nulla in contrario anche quando lo spirito di liberalità è sostituito dall’interesse economico di visibilità e sponsorizzazione da parte dell’impresa privata che permette o contribuisce alla realizzazione di una mostra, alla stampa di cataloghi, al restauro di luoghi e di opere. Anche il comodato d’arte da parte dei privati al pubblico è un valido strumento. Diversamente non sarebbe corretto nei confronti della comunità permettere a privati di realizzare un lucro diretto dall’arte pubblica, lucro ancor più appetibile se l’utilizzo avviene a costi bassissimi. L’arte è anche commercio e industria, non l’arte pubblica.
S.S.M. Una domanda che non ci stancheremo mai di fare: come evitare che l’arte contemporanea sia il fanalino di coda del sistema culturale italiano? Mi spiego meglio: la tradizione italiana, pur nell’applicazione delle normative, ha a lungo insistito sulla funzione conservativa. Per quanto necessaria e legittima, tale istanza ha tuttavia impedito il pieno sviluppo del contemporaneo. Negli ultimi anni, al contrario, si assiste a un’inversione di tendenza che, attraverso la proliferazione di fiere e la nascita di nuovi musei, vuole inseguire la scia di una cometa di presunta ricchezza. Come aggiustare il tiro tra due istanze tanto lontane? L’arte contemporanea conta solo nel mercato?
A.P. Il sistema culturale italiano deve essere riportato nel più corretto assetto che alla conservazione e tutela affianca con importanza paritaria la fruizione e l’attività artistica. Questo deve comportare un maggiore sostegno alla creatività del presente - soprattutto giovanile - e una maggiore promozione dell’arte contemporanea italiana all’estero. Le raccolte pubbliche di arte contemporanea devono essere incrementate e ben catalogate. In ogni caso, la stessa attività di conservazione e restauro non può non avere a oggetto anche l’arte contemporanea e le sue specificità.
Nessun commento:
Posta un commento