Specchio riflesso: Artlab 08

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°7 - novembre/dicembre 2008)

Artlab: dialoghi intorno al management culturale

Il 26 e 27 settembre si è svolta la terza edizione di Artlab, momento di incontro per operatori, manager e politici che, con fatica e passione, operano nel settore culturale.
L’evento, organizzato dalla Fondazione Fitzcarraldo di Torino con il sostegno della Regione Piemonte, quest’anno ha superato se stesso: oltre 400 partecipanti, di cui circa 250 iscritti e un centinaio di relatori, hanno preso parte alla “due giorni torinese”, ospitati nella Casa del Teatro Ragazzi e Giovani. Tema dell’edizione 2008: l’innovazione, sviluppato in una prima giornata di sessioni plenarie alternate a sedute parallele e in una seconda giornata organizzata in seminari. Una vera e propria maratona di racconti, punti di vista, dibattiti.
Personalmente, durante la seconda giornata ho saltellato da un seminario all’altro per cogliere l’aspetto collettivo e le dinamiche di gruppo, estrapolare suggestioni, ascoltare frasi, riflessioni e proposte spontanee scaturite in seno ai diversi discussant groups. Mi sono anche permessa di girare tra i tavoli del buffet allestito durante la pausa pranzo per cogliere i commenti dei partecipanti e domandarne l’opinione. Ebbene, l’entusiasmo che ho rilevato mi ha colpito: nessun deluso, poche critiche e tanta soddisfazione caratterizzavano gli umori dei miei “intervistati”. I relatori, dal canto loro, sciorinavano lodi - durante i propri interventi e nei momenti meno istituzionali - sottolineando come Artlab rappresenti un caso unico in Italia e come sappia radunare eccellenze diverse. Meno male, finalmente un po’ di ottimismo, considerato che buona parte degli interventi in aula sono stati caratterizzati da piagnistei e lamentele.
Il paradosso di Artlab è stato proprio questo: una serie di relatori presentati come esempi di buona gestione e modelli di riferimento che hanno trascorso buona parte del tempo a fare l’elenco di ciò che non funziona. Se i grandi si lamentano chissà quale atteggiamento dovrebbe caratterizzare i piccoli… ma forse i piccoli non hanno tempo per compiangersi, impegnati come sono a tirarsi su le maniche!
Ad Artlab si sono incontrati i primati del settore culturale italiano, colonne portarti di un sistema sbilenco, che però non hanno saputo essere realmente innovativi. L’innovazione promessa dal convegno è stata la grande assente: somministrare una serie di buoni esempi non significa fornire le risposte alle numerose domande che caratterizzano il nostro settore. Inoltre una sorta di narcisismo competitivo ha aleggiato un po’ ovunque: diversi gli “sbrodoloni” bravi a intessere le lodi del vicino a ad autocelebrarsi; in molti hanno invitato gli astanti a far proprio il motto “sbagliando si impara” ma nessuno ha raccontato i propri errori. Le difficoltà paiono sempre cadere dall’alto, conseguenza di catastrofi imprevedibili o di politiche che si accaniscono sullo sventurato operatore culturale. Ma chi sbaglia, dove sbaglia? E come si può imparare dagli errori?
Sicuramente, a colpi di lodi e piagnistei, sono venute fuori le caratteristiche del sistema italiano: i punti di forza (rari) e le criticità.
Argomento preferito: i tagli alla cultura. Come negarlo? Artkey e altri magazine di settore, nonché i mass media, ne hanno parlato ampiamente; mi permetto quindi di esaurire l’argomento riportando una frase che Roberto Grossi ha condiviso con gli intervenuti ad Artlab: per lavorare “mancano le condizioni materiali: risorse e luoghi prima di tutto. Il taglio è l’assenza totale di un disegno. La cultura fa bene, [senza risorse] i luoghi inesorabilmente diventano avulsi e si arriva al degrado”.
Intanto pare finalmente chiaro ai più che i modelli di management non possono essere importati e che la gestione delle IAC (istituzioni che si occupano di arte e cultura) non si può appiattire sul modello amministrativo delle aziende. In controtendenza con quanto detto a più voce fino un decennio fa, finalmente anche in Italia i modelli di Kotler e Kotler paiono superati, perlomeno nella teoria. Rimangono però attivi da più parti gli approcci alla Florida, con meccanismi paranoici che Luca Zan definisce “sindrome da auditel”; risulta qui necessario precisare che tutti gli intervenuti ad Artlab si sono dichiarati distanti da tali orientamenti che paiono aver attecchito in particolar modo in singole istituzioni, prima nel trevigiano, poi nel bresciano e a macchia sul resto della penisola. In Italia un certo snobbismo intellettuale, per quanto per alcuni aspetti controproducente, ha perlomeno preservato una mentalità che pare essere più orientata alla qualità che alla volgarizzazione numerica. Muovendo da qui, bisognerebbe però comprendere che anche le regole del diritto amministrativo non possono essere calate dall’alto in maniera univoca. Il contesto nel quale ogni IAC si muove è un contesto esclusivo, con caratteristiche che non possono continuare a essere ignorate: l’epoca delle ricette uniche deve volgere al termine, il management culturale non può permettersi il lusso di semplificare e attenersi ad approcci generalizzanti. Non è un’evoluzione semplice, considerato che le caratteristiche stesse sul quale le legislazioni si fondano sono l’uguaglianza e l’univocità della fattispecie. Il manager culturale si trova oggi costretto a entrare nella testa del legislatore, deve trasformarsi in giurista e raccapezzarsi tra commissariamenti, codici frammentati e norme cavillose. Si rendono quindi necessari nuovi strumenti legislativi, caratterizzati da una maggior flessibilità e differenziazione e passibili di interpretazione. Una certa autonomia è quindi auspicabile, ma ciò non significa che il settore pubblico possa essere un nuovo, ignavo, Ponzio Pilato. Da più parti è stata criticata la voracità dello Stato che, se da un lato propone deleghe e autonomie nella gestione delle (scarse) risorse dall’altro tende a fagocitare il sistema attraverso una serie infinita di paletti e vincoli che limitano il lavoro dei professionisti.
Altro argomento di discussione è stata la constatazione del persistere di determinati provincialismi e commistioni con la politica che altro non producono se non la replica di un modello clientelare basato, ancora troppo spesso, sulle preferenze e non sulle competenze. Inoltre le politiche culturali sono in ritardo rispetto alla società: ne è prova il fatto che ancora non si siano rese conto che, per una buona fetta dei cittadini, l’arte contemporanea è diventata una passione e che pertanto andrebbe sostenuta e seguita con particolare attenzione. L’azione politica è caratterizzata da cicli brevi che si contraddistinguono attraverso sensazionaliste sequenze spot; diversamente la gestione culturale, per ottenere risultati validi, sia dal punto di vista produttivo sia da quello - sacrosanto - educativo, deve essere lungimirante e protesa alla programmazione sul lungo periodo. Durante il convegno qualcuno ha parlato del bisogno di avere “pensieri lunghi” e personalmente credo che si tratti di uno dei concetti più importanti tra quelli emersi, pur nella disarmante semplicità.
All’unanimità è stato condiviso anche lo spauracchio per altre due bestie nere che affligono il sistema nazionale e che riguardano i settori della formazione del personale e della valorizzazione delle risorse umane; anche se, a ben vedere, si tratta di due facce della stessa medaglia.
Tra le carenze dell’italianità spiccano la scarsa mobilità e la quasi totale assenza di formazione continua: senza il confronto e la crescita professionale il sistema tende al suicidio organizzativo. È necessario investire sul lungo periodo permettendo al personale di formarsi al di fuori delle istituzioni nelle quali opera. Soprattutto è indispensabile far spazio alle nuove competenze, rappresentate in prima istanza dai giovani che sono tanti, preparati e volonterosi. Il cambiamento e l’innovazione non possono generarsi nella staticità. La turnazione del personale e il rinnovo generazionale non sono un lusso: senza questi presupposti l’universo delle possibilità è ridotto e viene osservato costantemente attraverso lenti che distorcono. La rigidità degli schemi reiterati deve lasciar posto alle variabili dipendenti e il lavoro deve essere considerato una di queste. Emiliano Paoletti e Valter Vergnano si sono anche permessi di andare oltre e di parlare di condivisione della mission e coinvolgimento del capitale umano: prima di pensare a valorizzare le risorse umane bisognerebbe imparare a conoscere e rispettare gli individui con i quali si lavora.
A proposito di gestione del personale è capillarmente diffuso il problema del sott’organico, ma non si può pensare di fronteggiarlo senza una rivoluzione dei ruoli; “pochi ma buoni” dovrebbe essere il motto da adottare, preso atto che in questo momento storico la carenza di personale continua a caratterizzare il sistema.
Tutti questi argomenti - e molti altri - sono venuti alla luce durante le sessioni di Artlab - non che prima fossero sconosciuti - ma nella realtà dei fatti la rosa dei relatori altro non è stata che lo specchio di quanto affermato. Non c’è illuminismo in un convegno di maschi, bianchi, sessantenni, statici, nella maggior parte figli di scelte politiche che sproloquiano lodando la mobilità e gli investimenti in risorse umane: c’è ipocrisia! Che Michele Trimarchi sostenga che gli studenti che collezionano titoli di studio post universitari trovino lavoro qualora siano “bravi e volenterosi” è una banalità tale che sorge spontaneo domandarci se negli atenei bolognesi non si leggano i giornali.
Tra i relatori: pochi i giovani (per lo più brillanti), rari gli stranieri e vergognoso il numero delle donne (circa un terzo degli intervenuti). Ancora non è chiaro il motivo per cui le donne nel settore culturale siano relegate in maggioranza al lavoro negli uffici stampa e promozione che, per quanto fulcri dell’attività strategica, non possono rappresentare un’univoca possibilità.
Artlab si è quindi confermato specchio del sistema, senza ipocrisie si è rivelato un arcipelago attorno al quale far ruotare una serie di temi attuali. Sicuramente è l’occasione di incontro e di dialogo tra diversi settori; innescare livelli di ascolto può comunque portare conseguenze positive nonché contribuire alla formazione di un network oggi indispensabile.
Il target di riferimento è sicuramente stato centrato: operatori del settore culturale che già lavorano e che del management culturale non hanno quasi nozioni.
Per tutto coloro che - probabilmente giovani e donne - hanno già investito in una formazione d’eccellenza, Artlab si rivela superfluo presentando modelli che dovrebbero già essere assodati, ma che purtroppo in Italia risultano ancora all’avanguardia.
Mi piace concludere con un’amara citazione di Andrea Bellini, riferita all’arte contemporanea, ma che credo si possa ben estendere al resto del settore: “Siamo seduti su una miniera e non sappiamo che farcene”.

Deutsche Bank porte aperte: tre domande a Rita Borgo

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°6 - settembre/ottobre 2008)


Adrian Paci, The Line, 2007, Sammlung Deutsche Bank



Deutsche Bank Italia: le nuove acquisizioni presentate al pubblico.

Open day 4 ottobre 2008.

È giovane la collezione d’arte contemporanea di Deutsche Bank Italia, ma cresce velocemente: inaugurata un anno e mezzo fa, si arricchisce ora di un nuovo nucleo di opere che narra la visione che gli artisti hanno della nostra Italia e del suo attuale contesto socio-culturale. In prevalenza si tratta opere fotografiche e particolare attenzione è riservata ai giovani artisti, anche se i nomi presenti rappresentano già buona parte dell’eccellenza contemporanea italiana e tedesca (non mancano però artisti di altre nazionalità).
Un assaggio? Alice Cannava, Domenico Mangano, Moira Ricci, Paola Pivi, Adrian Paci, Pierpaolo Campanini, Emilio Vedova, Gabriele Basilico, Norbert Tadeusz, Andreas Schön…
Le nuove acquisizioni, cinquanta opere in tutto, accresceranno la collezione esistente, che si snoda tra i locali della banca, perseguendo la filosofia Art at Work – l’arte che vive nei luoghi di lavoro.
Come già l’anno scorso Deutsche Bank approfitta della manifestazione “Invito a Palazzo” per aprire la sede milanese al pubblico in una giornata che non sarà solo un’open day, ma che vuole privilegiare diversi e personali percorsi di fruizione, ponendo il visitatore al centro dell’attenzione. Diversi percorsi tematici (la musica, il viaggio, la memoria…) accompagneranno il pubblico che potrà creare un proprio tragitto legato alla propria emotività. Non mancheranno laboratori e attività pensate alle famiglie con bambini.

In occasione dell'open day, poniamo alcune domande a Rita Borgo, Responsabile Comunicazione Deutsche Bank in Italia.
S.S.M. Deutsche Bank offre quotidianamente la sua collezione ai propri dipendenti negli uffici della sede milanese. Cosa rappresenta una scelta di questo tipo?
R.B.
Direi senz’altro una scelta innovativa di apertura e condivisione della cultura che rispecchia il forte e consolidato legame che, fin dagli anni’ 70, lega Deutsche Bank all’arte. La filosofia “Art works”, l’arte che vive nei luoghi di lavoro, è stata introdotta nel 2007 anche in Italia con l’inaugurazione di DB Collection Italy, quinto polo della collezione della banca nel mondo. E’ stata un’occasione unica per portare l’arte nel cuore della banca, permettendo l’incontro quotidiano dei nostri dipendenti con le opere esposte negli uffici e nelle sale riunioni, così come negli spazi di ingresso e in quelli del ristorante aziendale. Il processo di accettazione delle opere da parte dei colleghi è stato progressivo. L’arte contemporanea non è infatti di immediata comprensione e all’inizio molti erano scettici. Ma oggi credo che la collezione sia entrata a far parte del vissuto quotidiano di tutti coloro che lavorano nella sede di Deutsche Bank in Bicocca.

S.S.M. Nell’open day del 4 ottobre ampio spazio verrà dato alle scelte personali di fruizione. Vuole darci qualche anticipazione su questa idea inedita?
R.B
.Per il primo anno di apertura della collezione abbiamo privilegiato una fruizione tradizionale, con guide molto preparate, che offrivano una visita all’insegna dell’ascolto. Il nostro obiettivo era fare conoscere la collezione alla città. Nell’ottica però dell’arte nei luoghi di lavoro come stimolo al pensiero e alla riflessione, abbiamo pensato che in questo secondo open day fosse il momento di offrire una fruizione più personale e interattiva. Le opere, pur rimanendo nella loro posizione originaria, vengono raccolte in suggestivi percorsi tematici, fili conduttori che aiutano i visitatori a orientarsi senza però imporre una lettura o una spiegazione. Al termine di ogni percorso i visitatori si trovano in una stanza allestita che li mette in un giocoso dialogo con le opere che hanno visitato. Desideriamo invitare i nostri dipendenti, e tutti coloro che verranno a trovarci, a leggere l’arte contemporanea come qualcosa che parla a tutti, di questioni che riguardano tutti, ognuno con la propria esperienza, con i propri ricordi e desideri. Abbiamo inoltre cercato di introdurre nei percorsi quel tanto di ironico e giocoso che è indispensabile per coinvolgere e invitare a riflettere. Si sa che l’arte contemporanea spesso spaventa per la sua “cripticità” per il suo essere un linguaggio nuovo e dunque difficile da leggere. Il nostro intento, con il programma dell’open day del 4 ottobre, è di proporre attraverso i percorsi e le installazioni un’esperienza che si basi su quello che ognuno sa, vede, sente e ricorda.

S.S.M. A suo avviso, nell’unicuum rappresentato dalla collezione, quali novità apportano le nuove opere e quali continuità?
R.B.
In termini di continuità, le nuove opere riprendono chiaramente il filo conduttore dell’intera collezione, rappresentato dalle suggestioni che l’Italia e il suo contesto socio-culturale hanno introdotto e introducono nella personale visione di artisti italiani e stranieri. E’ tuttavia interessante vedere come questo fil rouge trovi modalità di espressione decisamente diverse a seconda dell’artista. La serie “Dancing in Emilia”, ad esempio, propone un insolito reportage di Gabriele Basilico nelle balere emiliane degli anni ’70 con immagini poco conosciute perché precedenti al suo filone fotografico dell’architettura che l’ha reso famoso in tutto il mondo. Al contrario, l’opera di Paola Pivi ritrae, con grande ironia, luoghi e situazioni inusuali che si accostano a elementi familiari, come gli animali fotografati dal vero in luoghi impensabili. Infine, i lavori di giovani artisti come Moira Ricci, Domenico Mangano e Alice Cannava, riflettono con modalità differenti sul proprio contesto di origine, elaborando una personale visione artistica e un’originale rappresentazione dell’Italia. Se da un lato le nuove opere condividono un comune filo conduttore, dall’altro si caratterizzano per la loro particolare unicità, visto che molti sono pezzi unici e poco conosciuti. Seppur in linea con la collezione di lavori su carta, caratteristica di DB Collection, le nuove acquisizioni si contraddistinguono per una forte attenzione alla fotografia, talvolta frutto di una straordinaria ricerca artistica come accade per le fotoincisioni di Pierpaolo Campanini.

Da Napoli a Stoccolma, la Fondazione Morra Greco approda in Scandinavia

(articolo pubblicato su Artkey n°7 - novembre/dicembre 2008)

Seb Patane, Lady Angela Wealdstone Courtesy Fondazione Morra Greco

È italiana la collezione, come è italiano il curatore, sono invece cosmopoliti per definizione gli artisti della grande mostra “Archeology of mind” presentata dal Malmö Konstmuseum di Malmö, in Svezia e che in seguito sarà ospitata dal Kuntsi, museo di arte contemporanea di Vasa, in Finlandia.
Si tratta di istituzioni museali d’importanza internazionale, in particolare il Malmö Konstmuseum possiede la più ampia collezione contemporanea di arte nordica, in continua espansione grazie ad un attento programma di acquisizioni. Archeology of mind porta nella penisola scandinava parte della collezione Morra Greco, organizzando così la prima esposizione composta esclusivamente da opere provenienti dalla Fondazione. La mostra, curata da Luigi Fassi, propone una ricerca filosofica e artistica raffinata come se ne vedono poche –purtroppo–.
Si lavora sul concetto di tempo, di per sé un concetto affascinante e fecondo, e in particolare sul rapporto passato-presente-futuro. Sono state scelte, tra le opere appartenenti a Morra Greco, quelle che analizzano il rapporto con il presente attraverso un’indagine con il passato. La conoscenza del tempo che fu non si esplicita in una semplice e sterile trattazione mnemonica, né in inutile culto celebrativo. Scrive Fassi: “Se è da respingersi la storia come scienza asettica, come mummificazione della vita, bisogna invece privilegiare l’esempio antico che stimola verso il nuovo, verso l’esplorazione di territori sconosciuti e carichi di nuovi stimoli”. Queste parole divengono la premessa per una retrospettiva che, attraverso uno sguardo eterogeneo sul passato, conduce a una riflessione sul presente e sul futuro. Il passato viene ancora una volta vissuto, consumato quasi, da un moto creativo e generativo di nuove prospettive. Ma si tratta, tanto per essere il più cervellotici possibile, di un passato qua e là impercettibile, mentale, privato; altrove onirico, surreale; qui violento, là sereno…
L’impresa è ardua: si decide di organizzare una mostra partendo da una collezione già formata, si sceglie un tema e si devono selezionare le opere che possono essere inscritte in quel tema, che in qualche modo possano appartenere a una filosofia di pensiero di non immediata semplicità. I lavori degli artisti devono in questo caso contenere in nuce l’idea di archeologia della mente, ossia ricercare un’alterità temporale, una definizione di sé e del proprio tempo che affonda le radici in un alto cronos. Lo scollamento transitorio sarà quindi nella relazione tra l’artista e il suo lavoro, che, scaturito dalle reminescenze del passato è comunque stato eseguito in un rapido presente che per noi che osserviamo è già passato; quasi come se vivessimo, rispetto agli artisti, un presente meno distante, in una serie di possibilità dilatate in un’infinita successione di istanti che inizia con il tempo raffigurato nell’opera, prosegue con il tempo in cui è stata eseguita e giunge al tempo in cui la godiamo che però si fissa nella nostra mente, persistendo all’attimo della fruizione e superando quindi i confini del momento. Ci auguriamo che la Fondazione Morra decida di proporre la mostra, così com’è stata pensata e realizzata, anche in Italia nelle proprie o in altrui sedi, per darci ancora una volta la possibilità di interrogarci su noi stessi partendo da ciò che è stato, in una ricorsività generatrice di moti intellettuali.

Tagli al MiBAC: le manovre annunciate dal nuovo governo preoccupano gli addetti ai lavori

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°6 - settembre/ottobre 2008)

Tagli ai beni culturali e al paesaggio: Tremonti amputa i finanziamenti

Salvatore Settis l’aveva denunciato a inizio luglio, tramite il Sole 24 Ore, ma ne sono seguite solamente polemiche utili a riempire le pagine dei media cartacei. Eppure la situazione è obiettivamente preoccupante: se i propositi annunciati da Giulio Tremonti troveranno attuazione il MiBAC attraverserà un lungo periodo di vacche magre.
Il decreto 983/2008 riguardante l’esenzione dell’ICI, emanato in tempi record, porta con sé una serie di criticità. Senza voler approfondire troppo l’argomento, resta aperto l’annoso dibattito su quale priorità attribuire alle diverse tipologie di proprietà. Pubblico versus privato? Esiste possibilità di mediazione? Tagliare la spesa pubblica per favorire i privati o tassare le famiglie per erogare più servizi? Nel caso concreto: sottraendo ai privati una tassa sulla proprietà, le entrate perdute dovranno essere a carico della società e/o di particolari settori del welfare? A voler fare i conti in tasca al Ministro dell’Economia, risulta palese che questi debba recuperare i mancanti introiti attingendo qua e là.
La scelta di tagliare i finanziamenti destinati al patrimonio paesaggistico e culturale quasi non sorprende, anzi risulta in continuità con le proposte presentate dallo stesso Tremonti durante il mandato precedente in cui si giunse a ipotizzare addirittura la vendita di zone costiere e beni demaniali. Far cassa con il patrimonio nazionale risulta quasi un’ossessione e questa volta, accusa preoccupato Settis, si rischia di liquidare definitivamente il Ministero della Cultura o di ridurlo in “stato larvale”.
Per il prossimo triennio la manovra di Tremonti prevede un taglio del 70% delle risorse destinate al MiBAC. Diviene spontaneo ricordare l’art. 9 della nostra Costituzione, inserito non a caso tra i Principi Fondamentali, che recita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”
Invece, l'attuale Governo inizia annullando lo stanziamento di 45 milioni di euro destinati al nostro Ministero dal Governo precedente per il “ripristino dei paesaggi degradati” ossia il frutto dell’abusivismo e degli scempi edilizi, nonché della noncuranza e degli interessi di categorie corrotte. Inoltre gli accantonamenti di bilancio dei Beni Culturali previsti per il periodo 2008-2010 (oltre 15 milioni di euro) verranno utilizzati a copertura dei mancati introiti ICI. Infine 90 milioni del prossimo triennio confluiranno nel «Fondo per interventi strutturali di politica economica».
“A questi tagli già cospicui (in totale 150 milioni) si aggiungono le misure ancor più drastiche del recentissimo Dl 112, che sottrae ai Beni culturali 228 milioni nel 2009, 240 milioni nel 2010 e 423 milioni nel 2011: un taglio complessivo di quasi un miliardo che, aggiungendosi ai 150 milioni già menzionati, infliggerà un colpo mortale a un’amministrazione già in grande sofferenza per mancanza di risorse” scrive Settis.[1]
Di questo scarso miliardo, 700 milioni avrebbero dovuto essere destinati alla tutela e alla conservazione, croce e delizia del nostro sistema. Grazie a questa primaria attività il patrimonio italiano è stato preservato (nonostante le numerose carenze), sigillo dell’identità culturale nazionale, vanto ed esempio del paese che per primo ha saputo varare una legislazione destinata alla protezione.
Il delicato compito della tutela e della conservazione - affiancato nel Codice Urbani a promozione, valorizzazione e fruizione - può essere svolto dai privati, ma a differenza di altre funzioni, necessita di continuità, preparazione e competenze che oggi solo le Soprintendenze, ultimo e fondamentale anello dell’Amministrazione Pubblica, detengono. Già nel 2007, Lombardia e Veneto hanno suggerito che tale esercizio venga svolto direttamente dalle Regioni, ma secondo alcuni esperti del settore la situazione si aggraverebbe ulteriormente. Inoltre dal punto di vista legislativo, la proposta sarebbe in contrasto con quanto previsto dal Codice dei Beni Culturali che prevede la collaborazione tra Stato e Regioni. Un’eventuale (e non auspicabile) modifica della Legislazione vigente non sarebbe ipotizzabile se non in tempi biblici, considerato le lungaggini solite del nostro sistema. Insomma, a tagliare si fa in fretta; al contrario per adattarsi alla situazione e predisporre eventuali correttivi si rischia di andare alle calende greche.

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[1] Salvatore Settis, "Governo, programmi e primi atti. Beni culturali in liquidazione?" Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2008

Piemonte ... "Always on the move". C'è posto anche per l'arte contemporanea?

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°7 - novembre/dicembre 2008)

Thomas Struth - Art Institute Chicago



Osservatorio Culturale del Piemonte, Relazione Annuale 2007


L'Osservatorio Culturale del Piemonte è un istituto di ricerca a partecipazione mista che si occupa di monitorare il panorama culturale della Regione Piemonte e di analizzarne le variabili, pubblicando numerosi screening a cadenza fissa.
Centro di ricerca e di documentazione, permette di conoscere il quadro regionale confrontandolo con diverse realtà internazionali. Si tratta di un vero e proprio servizio conoscitivo per gli operatori culturali: chiunque si occupi di cultura in Piemonte - e non solo - fa costante riferimento ai dati forniti dall'ente. Quest'anno l'Ocp ha celebratro i suoi dieci anni di attività e ha deciso di festeggiarli sperimentando una metaricerca: "osservando" se stesso e proponendo una tavola rotonda sull'argomento.
Concretamente - basta discorrere con uno qualsiasi dei ricercatori dell'Osservatorio per comprenderlo - si tratta di un vero e proprio "centro studi" che avvalendosi di una costante rete di relazioni professionali e di competenze multidisciplinari propone un approccio metodologico tanto scientifico quanto umanista. I dati vengono analizzati attraverso la conoscenza delle dinamiche che interessano l'intero contesto regionale: criteri statistici, valutazioni geografiche e interconnessioni tra soggetti diversi rendono l'Osservatorio un vero e proprio termometro sociale e sociologico.
Il risultato più evidente (e maggiormente seguito) è la Relazione Annuale; l’ultimo numero è stato presentato lo scorso 25 settembre presso l'IRES Piemonte. Il risultato è come sempre puntuale e fornisce uno spaccato sui consumi culturali piemontesi e sulla produzione di servizi atti a soddisfare quello che ormai è percepito come un fabbisogno. I cinque macrosettori indagati sono: musei e beni culturali; spettacolo dal vivo; cinema; risorse e, ultimo nato, industria culturale (ossia discografia, radio, tv, audiovisivi, editoria, biblioteche).
Nel capoluogo sabaudo la crescita della domanda rispetto al 2006 è aumentata del 9%. Il dato non è certo paragonabile all'incremento dell'anno precedente che, forte dell'effetto olimpiadi, registrò un aumento del 30%. Il 2006 è stato però una felice eccezione, caso più unico che raro, ma il dato odierno dimostra come il fenomeno non si sia esaurito. Ciò dovrebbe fungere da monito per gli amministratori pubblici e per gli attori privati affinché battano il ferro finché è caldo. Mollare adesso sarebbe l'errore più grave e vanificherebbe gli sforzi profusi finora. Non dimentichiamo che, per raggiungere obiettivi di questo tipo, il territorio piemontese ha subito invasivi processi di ricostruzione e lavori pubblici che ai cittadini sono costati fatica e pazienza. Le opere collettive e gli interventi urbani vanno donati in primo luogo ai propri residenti, così come i risultati delle politiche culturali. Questi ultimi poi emergono sul lungo periodo, il sistema non è ancora in equilibrio e per massimizzare gli investimenti effettuati è ancora necessario impegnarsi. Considerati i tagli alle risorse pubbliche annunciati di recente e la crisi complessiva del sistema finanziario, non sarà semplice proseguire lungo il cammino intrapreso. Nel 2006, in Piemonte, le risorse complessive (ossia quelle provenienti sia dal settore pubblico, sia dal settore privato) hanno superato i 360 milioni di euro, diminuendo rispetto all’anno precedente, durante il quale per la preparazione dei giochi olimpici si era profuso molto di più, beneficiando anche di contributi straordinari. Il dato significativo è che mentre le elargizioni degli enti pubblici diminuiscono - eccezion fatta per la Regione Piemonte che nel 2006 ha aumentato i finanziamenti alla cultura di un buon 33% - l’impegno delle fondazioni bancarie aumenta, seppur di poco (4%), dimostrando quando queste istituzioni siano diventate uno dei perni attorno al quale ruota tutto il terzo settore. Per quanto riguarda “musei e beni culturali”, l'Ocp conferma quanto recentemente sostenuto in diverse occasioni, vale a dire che il trend dei consumi culturali è in crescita. Cresce la domanda e cresce l'offerta. In Piemonte alcuni uccellacci del malaugurio facevano temere una sorta di vuoto post-olimpico; diversamente i dati confermano che gli investimenti (in termini di denaro ed energie) hanno prodotto un incremento positivo. La visibilità di cui Torino e le sue valli hanno goduto e alcune politiche lungimiranti hanno come conseguenza un decisivo ritorno reputazionale. Certo non tutti gli investimenti sono stati gestiti nel migliore dei modi e ancora molto si può e si deve fare, ma a quanti hanno alacremente lavorato in questi anni si deve il successo riportato dalla Relazione Annuale. I musei e beni culturali presi in esame sono 111 e nel 2007 sono stati visitati oltre 4 milioni di volte. Sul primo gradino del podio delle mostre più seguite troviamo “Afghanistan. I tesori ritrovati”, durata quasi un semestre, che ha visto 134.546 visitatori varcare la soglia del Museo di Antichità di Torino. Secondo posto per Palazzo Bricherasio (una tra le sedi più presenti nell’intera classifica) con la mostra ”I Macchiaioli. Sentimento del vero” (123.901 visitatori in circa quattro mesi). Bronzo per “Eredi di Alessandro in Asia. Da Seleucia a Gandhara” tenutasi a Palazzo Madama per tre mesi, visitatori: 101.280. Duole constatare come l’arte contemporanea sia scarsamente presente nell’intera classifica: la mostra più partecipata - sesto posto - è stata “Peggy Guggenheim e l’immaginario surreale” che, curata da Luca Massimo Barbera, si è tenuta all’Arca di Vercelli per un periodo di quattro mesi. Il numero di visitatori è stato circa un terzo rispetto ad “Afghanistan. I tesori ritrovati”; considerato però che si è svolta in una nuova sede regionale, fuori dai circuiti noti, sulla quale le istituzioni hanno scelto di scommettere, non si può non lodarne il risultato. Eppure qualcosa non torna… L’arte contemporanea fanalino del proprio tempo? Quando è iniziato tutto questo? Non è questa la sede per impegolarci in una discussione cosmica; ci venga concessa però una breve riflessione. Torino viene considerata ormai all’unanimità la città dell’arte contemporanea, eccellenza nazionale per numero di istituzioni che se ne occupano a tempo pieno - Castello di Rivoli, Fondazione Sandretto Re Rabaudengo, Fondazione Merz… - ; la città organizza diversi eventi - Luci d’artissima, ManifesTo, Contemporary Arts Torino Piemonte…-, presenta una tra le fiere maggiori - Artissima - e vanta un nucleo di gallerie decisamente interessanti e associate tra loro - Tag Torino art galleries -. Da parte sua la Regione Piemonte investe in maniera lodevole anche al di fuori del capoluogo, creando nuovi poli dell’arte contemporanea e gestendo il primo Frac regionale. Ciononostante l’arte contemporanea non riesce a superare il gap che la separa dalle altre espressioni culturali. E se non riesce in una regione ricca come questa, immaginiamo cosa succede altrove. Quali che siano le ragioni di tanta arretratezza, la nostra suggestione, rivolta agli amministratori e agli operatori culturali, è quella di investire in maniera mirata, ossia nella formazione, partendo dalle scuole e dalle università. L’offerta culturale risulta di ottimo livello, diffusa e diversificata, ora è il momento di stimolare la domanda che già spontaneamente dimostra un interesse crescente. In Piemonte il miglior centro didattico per l’arte contemporanea è probabilmente quello del Castello di Rivoli e un buon lavoro viene svolto anche da Città dell’Arte - Fondazione Pistoletto di Biella, ma è chiaro che non si possa continuare a delegare la formazione esclusivamente a dipartimenti didattici ed educativi di singole istituzioni. Il Piemonte ha dimostrato come sia possibile riconvertire una territorio da luogo industriale a città dei servizi; Torino ha recentemente appuntato sul suo petto la terza stella Michelin; la direzione intrapresa negli ultimi anni pare quella giusta: bisogna però ancora perfezionarsi e lavorare sulle numerose carenze presenti.

La Quadriennale di Roma premia Adrian Paci

Per Speculum 2006 Printed photograph

La 15a Quadriennale di Roma si è conclusa con la consueta assegnazione dei premi agli artisti più significativi. La manifestazione ha proposto, in questi tre mesi, un focus indimenticabile sull’arte italiana.
Ovviamente, nell’era della globalizzazione e del superamento dei confini geografici, i concetti diventano più elastici, alla Quadriennale hanno partecipato quindi anche italiani che risiedono all’estero così come stranieri che lavorano in Italia. A uno di loro, Adrian Paci, è stato assegnato il Premio Quadriennale (dal valore di 20 mila Euro) Paci, nato a Shkoder (Scutari) in Albania nel 1969, vive e lavora a Milano ed è uno degli artisti più popolari del momento. Il riconoscimento concreto è arrivato con la partecipazione alla 48.Biennale di Venezia, nel 1999, che, vero e proprio trampolino di lancio, gli ha permesso di affermarsi nel panorama internazionale, dal Canada alla Germania, passando per praticamente tutti gli stati europei. La sua ricerca artistica è in continua evoluzione e denota un non comune eclettismo di mezzi, stili e tecniche; ciononostante i temi restano costanti. Le questioni sociali contemporanee vengono sollevate con uno stile immediato, asciutto, diretto, ma anche profondamente ironico attraverso il quale Paci racconta le problematiche del suo paese (e più in generale dell’intera zona balcanica) le sofferenze degli oppressi, le tradizioni persistenti e quelle dimenticate da una società alla quale spesso mancano le possibilità di scelta. Ogni lavoro di Paci si presenta come uno spunto di riflessione, offre spontaneamente il fianco al pensiero, permettendo così alla sua arte di non fermarsi alla mera estetica, che per quanto indispensabile, non basta più. Paci si inserisce perfettamente in quelle correnti di artisti che senza falsi pietismi propongono a se stessi e agli spettatori una consapevolezza estrema del proprio tempo.

Venezia: inaugurato il ponte di Calatrava


L’11 settembre sembrerebbe una data non felice per inaugurare un’opera di architettura pubblica, ma il Comune di Venezia ha atteso nove anni per vedere realizzato il ponte di Santiago Calatrava e pare non volersi curare di date, simboli e numerologia.
Non devono preoccuparsi coloro che si sono persi l’annuncio relativo all’inaugurazione: la notizia è stata quasi taciuta, niente tagli di nastro né giochi pirotecnici. Mancava persino il protagonista della serata: l’architetto spagnolo è infatti restato a New York, dove lavora al progetto per la nuova stazione di Ground Zero. Insomma, le polemiche relative al quarto ponte di Venezia hanno esacerbato gli animi tanto da far perdere la voglia di festeggiare a quanti hanno investito competenze, idee e denaro. Eppure a Venezia giovedì sera si è radunata un’allegra folla per onorare il Ponte della Costituzione che collega piazzale Roma con la stazione ferroviaria della laguna e che risulta uno splendido esempio di architettura e una vera e propria opera d’arte.
Rinominata “il ponte di cristallo” la passerella pedonale abbraccia il Canal Grande senza apparire invasiva, risulta anzi armonica e in sintonia con Venezia. Calatrava questa volta non è stato troppo eccentrico, seppur stiloso e audace, ha abbandonato arpe, lire e liuti, reti di cavi e sostegni impegnativi e si è affidato al proprio intelligente eclettismo. Il risultato è un ponte di 94 metri in vetro e pietra d’Istria – il materiale più usato nell’architettura veneziana –.
Ci vorrà ancora tempo, invece, per l’ovovia-ascensore nascosta ai piedi del ponte e destinata alle persone a ridotta capacità motoria che verrà ultimata nei prossimi mesi. L’argomento ha suscitato non poche controversie negli ultimi anni, portando a discussioni, ritardi e ulteriori spese. Come al solito in questi casi il malcontento dilaga e si finisce inevitabilmente per dare più spazio alle discussioni che all’opera; anche ora, a progetto ultimato, la soluzione finale non soddisfa tutti. Chissà se nelle altre grandi città (Lione, Valencia, Bilbao, New York…) che hanno visto protagonista Calatrava, l’architetto-ingegnere ha goduto della stessa polemica accoglienza.
Siamo felici che ora tutto si sia risolto e che i disabili potranno serenamente passare da una sponda all’altra del Canal Grande. Per dirigersi poi non si sa bene dove, essendo Venezia, purtroppo, una città impossibile per chi ha handicap motori.
Bisogna riconoscere a Calatrava e agli amministratori pubblici – sindaco, assessori etc. – la capacità di essere riusciti laddove altri erano falliti: il progetto del IV ponte si è rivelato un miraggio per molti nel corso della storia del Novecento, persino per veri e propri geni, come Le Courbusier.
L’opera di Calatrava realizza la prima tappa del programma cittadino di modernizzazione del capoluogo veneto, sono diversi infatti i cantieri già aperti e i progetti pronti tra i quali quello per Punta della Dogana (che vedrà protagonista Tadao Ando); le Gallerie dell'Accademia (a cura di Tobia Scarpa); il nuovo Museo Vedova ai Magazzini del Sale (progetto di Renzo Piano) e il nuovo Ponte dell'Accademia, per il quale verrà presto pubblicato il bando e nel quale particolare attenzione sarà data ai temi dell’accessibilità e della non esclusione… sbagliando s’impara! Viene sancita così la volontà di Venezia di non accontentarsi di vivere nella rievocazione di un passato che diviene un vincolo capace di trasformare la città in una cartolina tridimensionale, la Serenissima intraprende il cammino per diventare città del presente e del futuro, in grado di conservare il proprio meraviglioso patrimonio e di produrne uno nuovo, arricchendosi oggi e consegnandolo al domani.

Tokyo annuncia la nuova giuria per il GEISAI #11

(articolo pubblicato su Artkey n°6 - settembre/ottobre 2008)

L’arte contemporanea non ha più frontiere e ci sono opere che potrebbero essere realizzate da chiunque e in ogni parte del mondo e delle quali, senza conoscere l’identità dell’autore, risulta difficile stabilire la provenienza.
Al contrario, ci sono artisti così caratterizzati nella propria poetica e tanto legati alle radici territoriali da risultare inconfondibili. Tra questi spiccano numerosi giapponesi i quali, almeno in parte, esaltano la recente tradizione fumettistica dei manga e degli anime. Per i nipponici quella dell’illustrazione è un’arte visuale vera e propria, che vanta un ruolo culturale, ma anche economico, di tutto rilievo.
Capostipite della pop art nipponica che si ispira ai manga e ai cartoons è Takashi Murakami, i cui lavori, in special modo le sculture, hanno raggiunto prezzi esorbitanti e girato il mondo. Lavoratore indefesso, non si accontenta di essere tra gli artisti che più producono in termini numerici, ma riorganizza il sistema dell’arte contemporanea del Sol Levante. Nel 2001 fonda la Kaikai Kiki Co. una piattaforma per la promozione di eventi e, soprattutto, di artisti per lo più giovanissimi. Tra le attività di Kaikai Kiki, decisiva per lo sviluppo del sistema dell’arte, spicca la gestione di Geisai la più importante fiera d’arte contemporanea del Giappone. Geisai è l’araba fenice che rinasce da una fiera preesistente e apporta nuovo splendore. A cadenza bimestrale, di recente approdata anche a Miami come evento collaterale di ArtBasel Miami Beach, è l’unica fiera a proclamarsi “palestra per gli artisti”. Questi possono promuovere direttamente i propri lavori e allestire stand creativi senza affidarsi a intermediari, inoltre una giuria d’eccellenza seleziona e premia gli artisti migliori appartenenti alle diverse categorie. Proprio la giuria della Fiera, nonché il precedente lavoro di non-selezione, rendono Geisai un appuntamento autogestito di forte impatto qualitativo e in grado, perciò, di attrarre diversi target di pubblico: il curioso, l’appassionato ma anche il grande collezionista o l’operatore professionale. Geisai funziona perché pare riesca a soddisfare tutti. Agli artisti viene data la possibilità non solo di vendere, ma soprattutto di inserirsi in una rete, di creare dei contatti, di trovarsi a confronto con il mercato dell’arte e i suoi protagonisti. E i collezionisti sembra si divertano a trovarsi in un clima tanto conviviale, flessibile, fuori dal rigido galateo e nel quale possono veramente tentare investimenti rischiosi, ma poco costosi, su artisti emergenti.
Singolare poi la durata della Fiera: un unico giorno nel quale gli artisti si giocano tutto.
Successo dopo successo, Geisai è giunta alla sua undicesima edizione con tanto di delocalizzazione negli States - dove si è insediata anche una succursale di Kaikai Kiki.
L’evento 2008 si svolgerà il 14 settembre al Tokyo Big Sight e quest’anno annovera circa 1.000 partecipanti, perlopiù giovanissimi. Novellini invece non sono i giurati, la cui competenza è indiscussa. I diversi settori di provenienza di ognuno rendono lo sguardo della commissione completo e multidisciplinare. Jack Bankowsky - curatore, critico ed editore, scrive per ArtForum e ha fondato la rivista Bookforum - Alison Gingeras - curatrice presso la François Pinault Collection, ha collaborato con i maggiori musei, tra i quali Palazzo Grassi, Guggenheim, Centre Pompidou - Carol Yinghua Lu - curatrice indipendente e scrittrice, lavora con prestigiose istituzioni e università - Philippe Sègalot - art advisor, consulente, esperto in aste e mercato dell’arte - Marc-Olivier Wahler - attualmente direttore del Palais de Tokyo di Parigi, collabora assiduamente con importanti istituzioni e riviste.

La Tate Britain celebra Francis Bacon

(articolo pubblicato su Artkey n°7 - novembre/dicembre 2008)

È iniziata la tanto attesa retrospettiva su Francis Bacon che la Tate Britain ha organizzato per l’autunno. Dall’11 settembre al 4 gennaio Londra celebra uno dei maggiori maestri della pittura del Novecento.
Bacon il pittore, ma soprattutto: Bacon l’uomo. Attraverso il percorso museale ci è dato conoscere meglio Bacon, le sue ossessioni, la povertà e le kermesse, la depressione e la gioia di un controverso protagonista della storia dell’arte più recente.
La mostra, curata da Chris Stephens, è una retrospettiva completa: si passa dai celebri ritratti di uomini - sfigurati, soli, urlanti, interpreti del proprio difficile tempo - agli animali - anch’essi straziati - ai meno conosciuti paesaggi…
Masterpiece il famoso ritratto di Papa Innocenzio X omaggio alla pittura di Diego Velasquez che tanto ispirò e assillò il pittore anglo-danese. E inoltre, altro capolavoro che da solo varrebbe la visita, Three Studies for a Crucifixion, del 1962.
La mostra è stata pensata per essere un reale percorso di conoscenza e coscienza che si snoda tra le sale della Tate Britain corredata da preziosi e completi apparati didattici. Diverse sezioni tematiche, che risultano ben più efficaci dei consueti allestimenti cronologici, nel caso di Bacon per lo meno la cui vita fu turbata da una serie di vere e proprie ossessioni ricorrenti che lo accompagnarono a lungo. Si passa così da “animali” a “ritratti”, ma per coloro che amano Bacon e ne hanno studiato la poetica, risulteranno particolarmente significative le sezioni “crisi”, “apprensione” e “crocifissione”.
Sono passati quasi vent’anni dalla scomparsa del Maestro, eppure ogni lustro che passa pare rendere più attuali le opere, più drammaticamente presenti. Ne scaturisce un’umanità in bilico, ricca di orpelli superflui ma profondamente triste, straziata nel proprio isolamento,divorata da una condizione esistenziale che è una gabbia beckettiana.
La deformazione dei volti, le bocche spalancate in urla sorde o forse soffocate, gli sguardi non più disperati ma ormai quasi vuoti, gli ambienti sgombri e spaziosi ma allo stesso tempo claustrofobici, i vetri sulle tele che – su indicazione dell’artista stesso – vogliono aumentare la distanza con il visitatore, estraniandolo maggiormente, ci rendono spettatori di esistenze patetiche in atmosfere di cellophane. E attraverso le serie dedicate agli animali e ai paesaggi, così poco conosciute, si coglie la visione quasi cosmica della ricerca baconiana, capace di straziare con la stessa intensità una bestia o il papa, annullandone le differenze.
Ma non c’è compassione nella brutalità, l’indulgenza e la pietà sono sentimenti di altri tempi: Bacon, profondamente scosso dalla seconda guerra mondiale e attento ai sottili mutamenti che durante le guerra fredda turbavano gli instabili equilibri esistenti, non fu mai compassionevole, bensì fu un crudo realista che affermò di voler ottenere, attraverso i propri lavori, un sicuro impatto sul sistema nervoso.
E l’obiettivo è stato magistralmente raggiunto.

Ladislav Bielik - August 1968 Bratislava, Palazzo d'Accursio, Bologna








Uomo a torso nudo davanti a carro armato degli occupanti. PIAZZA ŠAFÁRIK, BRATISLAVA, .SSR, 21 AGOSTO 1968


1968. Per chi vive nell’Europa cosiddetta continentale questa data evoca lotte studentesche e proletarie, moti di libertà e cambiamento che hanno – nel bene e nel male – portato all’attuale stato delle cose. Nel nostro immaginario collettivo, nostalgico e revisionista, il 1968 profuma come il mese di maggio a Parigi e parla di università occupate, sa di gioventù e di voglia di libertà.
Negli Stati Uniti i movimenti pacifisti e quelli per la parità dei diritti, capeggiati da Martin Luther King - assassinato nell’aprile dello stesso anno - diffondevano ideali di solidarietà e speranza, gli stessi che con ardore e passione Alexander Dubček consegnava a Praga, proponendo inedite riforme al sistema esistente.
Gli obiettivi di Dubček avrebbero voluto concretizzarsi nella realizzazione di un “
Socialismo dal volto umano" (com’egli stesso amava definirlo) fondamento ideologico del movimento politico, intellettuale e popolare chiamato Primavera di Praga (Pražské jaro). L’allora Cecoslovacchia, centro geografico dello schieramento difensivo sovietico, non poteva permettersi cambiamenti tanto radicali, soprattutto considerata la politica estera della “Madre Russia”, impegnata a combattere una tanto analitica quanto pericolosa Guerra Fredda. I tentativi di introdurre elementi democratici nell’assetto costituito dalla Rivoluzione di Ottobre furono visti come una grave minaccia da epurare con qualsiasi mezzo. Le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia il 20 agosto del 1968. Il seguito è storia.

Vista di Piazza Šafárikovo. DOSTOJEVSKéHO RAD, BRATISLAVA, .SSR, 21 AGOSTO 1968

Oggi, a quarant’anni di distanza una mostra itinerante racconta, attraverso suggestive fotografie scattate da Ladislav Bielik (1939 Levice, 1984 Bucarest) a Bratislava, le prime terribili ore dell’occupazione sovietica. Già ospitata in altre capitali europee, l’esposizione approda in Italia: prima tappa Bologna, seguiranno Torino, Modena, Treviso e Vicenza. Personalmente ho visitato la mostra a Praga, quest’estate, e ne sono rimasta tanto colpita da aver deciso di seguire le tappe successive. L’esposizione racconta le storie della Storia, gli scatti catturano istanti così affascinanti e tremendi che immancabilmente portano alla riflessione, allo studio, all’approfondimento.
L’estetica delle immagini e l’orrore dei soggetti è un ossimoro emotivo che frastorna.
A seguito di quel reportage, Ladislav Bielik fu allontanato dalla redazione per la quale lavorava, quella del quotidiano “Smena”. I negativi delle fotografie furono dimenticati e ritrovati solo nel 1989, in una vecchia valigia dal figlio di Bielik, Peter. Ed è così che giungono a noi. Gli organizzatori della mostra (Camera Obskura) hanno deciso di stampare immagini a grande formato, scegliendo però di offrire una stampa diretta dei negativi, con tanto di bordi bucherellati per lo scorrimento della pellicola, un po’ come i provini che i fotografi professionisti effettuano per la selezione delle immagini. 187 fotografie scattate in rapida sequenza e presentate nello stesso ordine, ci permettono quasi di essere trasportati tra le strade polverose attraversate dai cingolati sovietici. La fotografia che riscuote il maggior successo è anche la più celebre, scelta da “Smena” per il servizio del 22 agosto e selezionata da World Press Photo 1968-69, ha fatto il giro del mondo e immortala un uomo che, a pochi passi da un carro armato, si apre la camicia e urla, sfidando i rappresentanti della repressione. Non tutti i Cecoslovacchi reagirono allo stesso modo, per molti fu forse chiaro, fin dall’inizio, che la repressione sarebbe stata solo una diversa quotidianità. Eccoli: un uomo che con la sua famiglia e un boccale di birra legge serenamente un quotidiano, sullo sfondo un carro bellico; una signora di mezza età in attesa (chissà di chi) su una panchina pubblica, un cittadino che, accanto a una fila di carri armati, spinge un passeggino… E poi, soldati che chiacchierano serenamente con i civili, occupanti e occupati così simili eppur così distanti; un militare che è prima di tutto un fanciullo dallo sguardo innocente… Ogni foto ci emoziona in modo diverso.
Se non bastasse il rapimento dato dalle fotografie, a Bologna anche l’allestimento è degno di nota. Organizzato da Associazione Allegra a Palazzo d’Accursio, propone un unico lungo film fotografico (e non tante fotografie singole, seppure continue come negli altri allestimenti) che si snoda lungo una parete a forma di otto. Anche a Bratislava la mostra, inaugurata il 28 maggio e conclusa da poco, ha proposto un allestimento simile, ma lì, anziché il simbolo dell’infinito si è scelto quello, altrettanto evocativo, della stella rossa. La mostra, inaugurata a Bologna il 2 settembre, alla presenza di autorità e intellettuali vari, tra i quali il sindaco Cofferati e il figlio del fotografo, proseguirà il suo viaggio nel Nord-Italia per tutti coloro che, appassionati di arte e di storia, sentono l’esigenza di unire le due ricerche per placare la propria voglia di conoscenza dei nostri tempi.

Il Ministro Bondi rilancia il Progetto Magnifico

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°6 - settembre/ottobre 2008)

Maurizio Cattelan, Il Bel Paese (The Beautiful Country), 1994
tappeto in lana Ø 300 cm Castello di Rivoli Museo d'Arte Contemporanea
Elargizione Maurizio Cattelan; Massimo De Carlo, Milano; Pulsar Group
Insurance Brokers, Milano, Torino, 1994

Siglato il rinnovo del protocollo tra il MiBAC e Mecenate 90 per la promozione del patrimonio culturale italiano
Turismo culturale: Mecenate 90 e MiBAC rilanciano il progetto Magnifico.

Si chiama “Magnifico”, in onore del rigoglioso periodo del Rinascimento italiano e di uno dei suoi protagonisti, Lorenzo de’ Medici, detto appunto il Magnifico, che tanto fece per lo sviluppo culturale della sua Firenze.
Magnifico è un progetto di promozione, valorizzazione e gestione culturale con lo scopo di favorire il turismo e di proporre servizi integrati a coloro che si recano in visita nelle nostre località. Siglato dal ministro Sandro Bondi e dal presidente di Mecenate 90, Alain Elkann, è un vero e proprio protocollo d’intesa che coinvolge le aziende attive nel settore culturale e turistico: musei e alberghi, festival e aeroporti, istituzioni culturali e stazioni ferroviarie… per proporre una piattaforma di sinergie che rendano l’offerta culturale italiana competitiva a livello internazionale.
Il turismo, in Italia, si caratterizza per le sue componenti culturali esclusive e non reperibili altrove: le archittetture, i siti archeologici, le tradizioni identitarie e, soprattutto negli ultimi anni, presenta formule di viaggio cosiddetto city break, ossia turismo urbano contraddistinto da soggiorni brevi alla scoperta delle città d’arte. Attratti anche da manifestazioni temporanee (mostre, eventi, festival) i nuovi pellegrini si trovano però spesso di fronte a oggettive difficoltà derivanti dalla mancanza di un sistema integrato e dalle carenze comunicative. Il turista va seguito, coccolato, messo in condizione di ottimizzare i suoi tempi non solo dal punto di vista della mera ricezione alberghiera o culinaria. Il sistema di informazioni disponibili, da reperire in anticipo rispetto al viaggio, modifica la capacità di accoglienza e quindi l’attrattività di un luogo. L’utente consuma e valuta, sceglie e passa parola, un solo disservizio può alterare completamente il giudizio finale di un viaggio o di una gita; investire nell’informazione rappresenta quindi un scelta strategica atta a migliorare i rapporti tra le diverse istituzioni e con chi viaggia, qualifica il settore e contribuisce a renderlo maggiormente competitivo.
Per ovviare alla frammentazione dell’informazione derivante dall’elevato numero di operatori, l’associazione Mecenate 90, con il supporto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la collaborazione di numerosi enti e imprese di settore, ha varato il progetto Magnifico, con lo scopo di diffondere “un sistema integrato di comunicazione e di promozione del patrimonio culturale”. I partners aderenti al progetto offriranno tempestive informazioni circa i propri programmi (mostre, eventi, iniziative museali). La comunicazione raggiungerà i destinatari tramite la distribuzione di materiale pubblicitario cartaceo, video, audio, telematico…
Con lo scopo di dare al turista le informazioni e i servizi di cui necessita, Magnifico vuole diventare un brand affidabile, innovativo e identificativo di quell’Italian Style che in questi anni ha mantenuto vivo l’interesse di coloro che ricercano ospitalità e arte. Sostenere lo sviluppo della comunicazione dell’identità nazionale significa anche favorire le nuove produzioni culturali: un progetto di tale portata rende più interessante le nostre città agli occhi di chi le visita e, allo stesso tempo, di chi le abita e le vive quotidianamente. Migliorare la qualità della vita e lo stile di una città significa inevitabilmente renderla meta di viaggi che portano con sé novità, scambi culturali, nuovi spunti che a loro volta alimenteranno nuovamente lo stile pre-esistente, in un processo di proficua auto-rigenerazione.

Evoluzione delle fiere, involuzione delle mostre?

(articolo pubblicato su Artkey n°7 - novembre/dicembre 2008)

Si è svolta dal 5 al 7 settembre ABC la nuova fiera – che però fiera non vuole essere – dell’arte contemporanea tedesca. I clamori che hanno accompagnato l’evento l’hanno fatta da padrone per diversi mesi e ne hanno sicuramente aumentato la visibilità. Riassunto delle puntate precedenti: tra il mal contento generale e la crisi delle fiere, i galleristi tedeschi decidono che il limite è stato raggiunto (non dimentichiamo che Dusseldorf Contemporary quest’anno non ha avuto luogo proprio a causa della “crisi”). Art Forum Berlin viene spostata ai primi di novembre, per approfittare della festa si dice, ma finisce così per piazzarsi (nel calendario delle fiere internazionali) dopo la Fiac di Parigi che diventa quindi un competitor imbattibile. Inoltre nel mese di ottobre ha luogo anche Frieze London, altro concorrente con il quale fare i conti.
Ma se le fiere non funzionano più e le biennali annoiano, come restare a galla? Nonostante la crisi, i consumi culturali registrano un trend in costante aumento, è evidente quindi che i potenziali visitatori esistono, come ridestare la loro stanca attenzione? Ci vuole una novità…

La risposta arriva con ABC – Art Berlin Contemporary che manda in solaio il format della fiera, con i suoi stand e la confusione tipica del mercato e propone quella che viene chiamata una “grande mostra”collettiva allestita in un enorme open space con tanto di poltroncine per concedersi una pausa durante il percorso di visita. Opere presenti: quelle dei galleristi, curatrice: Ariane Beyn, tema: “L'offerta artistica del panorama galleristico berlinese attraverso opere di scultura, installazioni e proiezioni” - e non poteva essere altrimenti - .
La polemica divide l’opinione pubblica e, tra galleristi che declinano l’invito a partecipare e altri che invece sostengono ABC nella battaglia contro Art Forum, si finisce per perdere di mira l’obiettivo iniziale che era quello di unire le forze. E così Berlino quest’autunno si ritrova ad avere due fiere, ops scusate una fiera e una non-fiera, il che significa frammentare ancora l’offerta, contribuendo ad aumentare il già nutrito numero di eventi concorrenti. Ma si sa, sbagliando si impara, e per il 2009 si è già trovata un’altra soluzione. Le due manifestazioni si svolgeranno nello stesso periodo, a fine settembre, sotto la supervisione di Eva-Maria Häusler e Peter Vetsch e verrà prediletto lo stile espositivo simil-mostra.

A detta di alcuni il nuovo modello prenderà presto piede e porterà quella ventata di novità di cui si sente l’esigenza, rivoluzionando il pensiero stesso delle fiere. Ben vengano le innovazioni, ma per cortesia, che non ci si azzardi a chiamare “mostra” un pot-pourri di opere d’arte! I galleristi e gli organizzatori delle fiere sono liberi di inventare nuovi allestimenti e itinerari non guidati, ma ben lungi da loro si trovano le “mostre”: esperienze cognitive che si basano su un vero e proprio percorso di fruizione, senza poter prescindere da nutriti apparati didattici. Per organizzare una mostra non basta mettere insieme un numero indefinito di manufatti artistici, e neppure di capolavori; perché una mostra possa essere definita tale c’è bisogno di un senso soggiacente, di un filo rosso estetico, di quel quid emozionale ed educativo che permette all’esperienza estetica di sedimentare nell’animo del fruitore. È pur vero che numerose esposizioni, anche museali, non posseggono queste caratteristiche, purtroppo il numero delle mostre banali – per non dire inutili – pare in aumento, ma è proprio per difenderci dall’avanzare di questo abbrutimento che diviene necessario chiamare le cose con il proprio nome e attribuire ad ognuno il proprio significato.
Pertanto è auspicabile che la differenza tra una mostra e una fiera, o mostra-mercato, resti ben chiara e impressa nelle menti di ognuno.

Fotografia asiatica nella Collezione CRMO

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°6 - settembre/ottobre 2008)

La Fondazione Cassa di Risparmio di Modena ha deciso di dar vita ad una Collezione ampia ed accurata di fotografie, video e film, veicoli di indagine artistica dall’impatto immediato e suggestivo nei quali l’immagine non è semplicemente elemento artistico, ma diviene mezzo di comunicazione. La Collezione è destinata a crescere nei prossimi anni, attraverso un attento programma di acquisizioni curato da Filippo Maggia.
Il progetto prevede che la Collezione si sviluppi in sottosezioni geografiche, organiche e attente al contesto di riferimento dal quale le opere scaturiscono. Inevitabile sarà quindi l’esplorazione socio-culturale di ogni regione e la conoscenza delle sue peculiarità. Ed è così che le opere verranno presentate al pubblico: attraverso mostre tematiche che saranno anche un momento di contatto con luoghi e culture differenti.
Prima tappa del progetto: 13 dicembre 2008, data di inaugurazione della prima mostra tematica. Al Foro Boario di Modena verrà presentata la sezione della Collezione dedicata all’estremo oriente, tanto di moda in questi ultimi anni. Numerose infatti sono state le retrospettive dedicate ai paesi asiatici e investire in arte orientale pare essere diventato il must del momento. Fintanto però che la tendenza persiste, si può approfittare e visitare le proposte espositive che come funghi spuntano un po’ ovunque. Quella di Modena vanta sicuramente una serie di capolavori interessanti e unici provenienti in prevalenza dal Giappone e dalla Cina, ma anche dalla Corea, dalla Malesia, da Taiwan e dalla Tailandia. Basti dire che in mostra saranno presenti gli sgargianti Flowers del nipponico Nobuyoshi Araki e i delicati lavori del suo compatriota Hiroshi Sugimoto. Dalla Cina Yang Zhenzhong e la giovanissima Cao Fei. Inoltre le competenze di Maggia, profondo conoscitore dell’arte orientale sono una sicura garanzia della qualità dell’esposizione.
La mostra sarà accompagnata da un catalogo edito da Skira.


David Elliot risponde all'appello di Sydney 2010

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°6 - settembre/ottobre 2008)

Nel 2010 la Biennale di Sydney si svolgerà durante il mese di maggio e festeggerà la sua 17a edizione.
L’attuale direttore artistico è Carolyn Christov Bakargiev che passerà il testimone a David Elliot. Curatore di fama internazionale, ha lasciato la sua impronta al Museum of Modern Art di Oxford, al Moderna Museet di Stoccolma, al Mori Art Museum di Tokyo e al Museum of Modern Art di Istanbul. Considerato uno dei massimi esperti mondiali di arte contemporanea asiatica e mediorientale, per sei anni ha collaborato con l’ICOM in veste di presidente del dipartimento che si occupa dei musei di arte contemporanea (CIMAM).
Nel 1990 la grande esposizione itinerante “Art and Power” aveva sollevato un notevole interesse: presentava i prodotti artistici scaturiti dai grandi regimi totalitari che hanno segnato la storia della prima metà del Novecento, esplorando le relazioni tra arte e potere. Dinamiche di questo tipo sono oro per la Biennale di Sydney che ama destare le coscienze dal “sonno dogmatico” nel quale spesso sprofondano.

Elliott ha già annunciato che la prossima edizione sarà la preview del secondo decennio di questo millennio e indagherà l’arte contemporanea quale attività fondamentale per l’essere umano, finestra aperta sulla libertà, la creatività e l’ampliamento di prospettive; necessaria alla sopravvivenza dell’anima in tempi tanto difficili. Niente male come obiettivo.
Gli organizzatori della Biennale hanno dichiarato di aver chiesto a Elliott di curare la prossima manifestazione perché presenta un profilo in linea con la tradizione delle Biennali: versatile e dinamico.
Elliott ha lavorato nei punti urbani nevralgici dell’arte contemporanea, da Berlino a Tokyo, dall’Asia al Sud- America… manca giusto l’Oceania, quale migliore occasione, dunque?

Damien Hirst: nuovi lavori all’asta



(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°6 - settembre/ottobre 2008)


Si sa, ci sono nomi di artisti che riescono a far muovere i collezionisti da ogni parte del mondo e uno di questi è sicuramente Damien Hirst. Eppure non è tutto ora quello che luccica, neppure quanto viene fuso sulle corna e sugli zoccoli di un “vitello”.
Mesi fa Sotheby’s annuncia la grande asta che avrà luogo il 15 e 16 settembre a Londra e nella quale saranno battuti oltre 200 lavori di Hirst, la maggior parte dei quali inediti.
Non manca niente, tutte le ossessioni ricorrenti di Hirst ci sono: monumentali sculture di animali in formaldeide, pillole e farmaci, cellule cancerogene, innumerevoli farfalle e soprattutto, masterpiece indiscusso, “The Golden Calf”, il vitello d’oro, per il quale si parla di 12 milioni di sterline!
Le indiscrezioni iniziano a ventilare la possibilità che Hirst abbia deciso di divenire mercante di se stesso: bypassando gallerie e fiere, preferirebbe cedere i propri lavori direttamente alla casa d’asta, aumentando così i suoi introiti diretti e permettendo a Sotheby’s di vantare il mandato esclusivo sulle tanto discusse opere. Il che non stupirebbe, considerato l’estro e il fiuto per gli affari dell’artista.
Ma mentre Sotheby’s organizza le vendite, The Art Newspaper indaga e getta discredito sull’evento. Il 23 agosto, praticamente alla vigilia della grande asta, viene pubblicato un articolo che svela la difficoltà di piazzare un’opera di Hirst sul mercato. I lavori in possesso della White Cube di Londra (una delle gallerie che rappresentano Hirst) sono rimasti per lo più invenduti. O almeno quelli il cui prezzo supera i limiti della decenza! Non a caso il celebre teschio in diamanti e platino aveva causato non pochi problemi a Hirst e alla White Cube: dapprima una serie di dichiarazioni contrastanti sul prezzo finale del “gioiello”, poi le difficoltà a rendere l’opera fruibile – nessun museo può permettersi di assicurare un’opera da 50 milioni di sterline – e infine la tresca sul misterioso acquirente, rivelatosi poi un gruppo di investitori tra i quali lo stesso Hirst e la White Cube!
La decisione di rivolgersi a Sotheby’s sembrerebbe dettata dalla scelta di far togliere le castagne dal fuoco a qualcun altro, ma si rivela in realtà frutto di una valutazione strategica ben più complessa. L’asta permette di presentare un enorme nucleo di opere stando al passo con la prolifica produzione dell’artista: i 223 lotti di settembre sono stati prodotti tutti nell’ultimo biennio; secondo The Art Newspaper solo Murakami e una manciata di altri artisti cinesi riescono a “produrre” quanto Hirst.
L’Inglese è rappresentato da diverse gallerie in tutto il mondo, altre, pur non rappresentandolo direttamente, posseggono alcune opere, infine gli acquirenti interessati possono persino scegliere di comprare “l’arte”senza intermediari, direttamente presso lo studio dell’artista. Ciononostante, Hirst necessita di raggiungere nuovi – ricchissimi – compratori in ogni parte del globo e Sotheby’s si rivela quindi il broker decisivo. Attraverso la sua rete di contatti, la casa d’asta è in grado di raggiungere ogni target del collezionismo mondiale, in particolar modo i nuovi collezionisti, ricchi rampanti che fanno dell’arte uno status symbol e che disertano gallerie e musei, ma rispondono prontamente alle chiamate delle maggiori case d’asta. D’altronde c’è una netta differenza tra proporre opere d’arte e proporre cultura, tra ciò che può essere venduto (anche se a prezzi sfacciati) e ciò che può essere trasmesso. Inoltre Sotheby’s raggiunge luoghi nei quali le istituzioni culturali, soprattutto pubbliche, faticano ad insediarsi o non esistono.
A noi non resta che attendere e osservare l’andamento del mercato che se andrà nella direzione auspicata da Hirst e da Sotheby’s segnerà un precedente non da poco. Infine una curiosità: il titolo dell’asta è “The Beautiful Inside My Head Forever”, altisonante, no?