(articolo pubblicato su Artkey n°5 - giugno/luglio 2008)
Andrea Galvani, La morte di un'immagine #9, 2006
“Svanisce così il corpo glorioso, in questa strana, straordinaria fotografia, che parla forse della liberazione dei segni, una volta sottratti alle gerarchie di senso istituite dal Nome del Padre”. È questa la frase conclusiva dell’articolo di Giorgio Verzotti apparso sullo scorso numero di ArtKey: una critica pulita, approfondita e illuminante sulla fotografia contemporanea. La frase riportata, in particolare, fa riferimento al lavoro di Andrea Galvani (Verona, 1973) che, tra gli artisti selezionati dal curatore, emerge per il talento, la tecnica, il gioco formale certosino. Capaci allo stesso tempo di intimorire e affascinare, le opere di Galvani creano discontinuità, invitano alla riflessione, comunicano silenziosamente con lo spettatore. Come ne “l’intelligenza del male” (a cui ArtKey n°4 ha dedicato la copertina), Galvani riflette sullo stato dell’immagine che costruisce direttamente sul set esterno, senza allestimenti in studio, omaggiando la nitidezza dell’ambiente scelto, lasciato intatto, ripreso senza violenza, con cura e rispetto e con una sorta di voyeurismo insito in ogni scatto fotografico; intima ambiguità che destruttura le posizioni di chi osserva. Rappresentato in Italia dalla galleria Artericambi di Verona, Galvani è fotografo, illustratore, videoartista e docente all’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo. Nonostante la giovane età, ha già esposto sia in Italia sia all’estero, numerose riviste di settore hanno parlato di lui e diversi cataloghi monografici o collettivi divulgano la sua opera. Ci sono quindi tutti gli ingredienti per presupporre una crescita artistica decisiva. A conferma di ciò, è recentemente arrivato un riconoscimento in grado di far decollare la carriera dell’artista (e il valore economico del suo lavoro): si tratta del premio newyorkese Location One, nell’ambito del progetto International Residency Programm.
Il premio viene assegnato ogni anno a dodici artisti invitati al programma, sostenuti da un garante istituzionale, sia questo un museo, una fondazione culturale, il ministero della cultura… in Italia il garante promotore è Artegioavane Milano, con il sostegno di nima S.G.R.p.A. e del Comune di Milano. Il garante nazionale svolge una prima selezione di opere e sceglie quale curriculum inviare alla commissione internazionale, con sede negli Stati Uniti, che esprime il giudizio definitivo. Il premio, del valore di 22 mila euro, consiste nella possibilità di soggiornare per sei mesi in una residenza a Manhattan, nella quale gli artisti hanno a disposizione strumenti e tecnologie avanzate nonché l’assistenza di un curatore personale. Oltre all’intenso programma di studi, gli artisti incontreranno curatori, galleristi e operatori culturali nweyorkesi, immergendosi così in un ambiente ricco di stimoli. Il premio si prefigge, infatti, di promuovere la crescita degli artisti e di divulgare la giovane arte. A tal scopo, passati i sei mesi, Location One organizza un’esposizione dal forte impatto mediatico nella quale gli artisti presentano, in un solo show, il lavoro svolto.
Le scorse edizioni di Location One hanno premiato, quali rappresentanti italiani, Moira Ricci (2007), Alessandro Nassiri (2006), Paolo Luca Barbieri (2005). Partenza a settembre dunque per Andrea Galvani che crediamo saprà degnamente rappresentare la giovane arte italiana all’estero.
Roma: Alemanno cancella la notte bianca e promette tagli alla cultura
Prima le polemiche sulla teca dell’Ara Pacis, controversa opera di Meier, ora l’annuncio di nuovi tagli al settore cultura, pare che la nuova giunta della destra romana abbia un’avversione verso il contemporaneo.
La giustificazione ufficiale è la solita: emergenza bilancio!La giunta entrante dichiara di trovarsi di fronte a un enorme “buco” finanziario e deve, giustamente, far fronte alle impellenti emergenze sociali che all’improvviso investono Roma.
La solfa non cambia: quando bisogna tagliare la spesa pubblica il settore privilegiato è da sempre quello culturale (assieme a Università e Ricerca e ad altri indispensabili settori considerati di serie B). E mentre all’estero - e per nostra fortuna anche in alcuni illuminati centri nostrani - si è capito che l’economia della conoscenza e gli investimenti culturali sono uno degli ingredienti della ricetta per il progresso sociale, a Roma si decide di operare in senso contrario. Chi lavora nel settore culturale ormai non ce la fa più a sentire le solite nauseanti tiritere che sostengono che i finanziamenti alle arti sottraggono soldi agli ospedali, alle scuole e al sociale, come se si trattasse di una guerra –tra poveri- tra settori in competizione, quasi che l’amministrazione pubblica fosse di fronte ad un rigido trade-off.
A Roma a farne le spese sarà quella cultura contemporanea che è stata il fiore all’occhiello della giunta di Veltroni: estate romana e Notte Bianca in primis e, si preannuncia, jazz e cinema.
Umberto Croppi, nuovo Assessore alla Cultura – nonché direttore della Fondazione Valore Italia - ha dichiarato alla stampa: “Estate romana e Notte Bianca dovremo riprogettarle alla luce delle mutate esigenze, mentre su altre [manifestazioni culturali nda], come la Festa del cinema, stiamo pensando alcune proposte”. Nel frattempo la Notte Bianca è stata annullata e il programma per l’estate romana ridotto; le istituzioni collegate all’evento e gli esercenti hanno già inviato una lettera di protesta al Sindaco, affinché riveda le posizioni della Giunta.
A quanto ammontino i tagli annunciati non è ancora dato sapere, però dalle dichiarazioni fatte ai media pare che in un futuro non precisato ci saranno i soldi per smantellare la teca di Meier e riposizionarla altrove, investire in un altro intervento sullo stesso luogo e liberare la Capitale “da tutti gli sfregi”; riportandola forse al suo antico o tuttalpiù neoclassico splendore. Inoltre, cavalcando lo spirito nostalgico tanto a caro a certa politica italiana poco incline al rinnovamento, si pensa già ad un nuovo museo che celebri Roma e il suo passato. Ci si chiede con quali soldi verrà finanziato il progetto… ma forse allora gli ospedali di Roma saranno stati tutti risanati e le emergenze sociali saranno solo un vecchio ricordo legato all’amministrazione passata.
La giustificazione ufficiale è la solita: emergenza bilancio!La giunta entrante dichiara di trovarsi di fronte a un enorme “buco” finanziario e deve, giustamente, far fronte alle impellenti emergenze sociali che all’improvviso investono Roma.
La solfa non cambia: quando bisogna tagliare la spesa pubblica il settore privilegiato è da sempre quello culturale (assieme a Università e Ricerca e ad altri indispensabili settori considerati di serie B). E mentre all’estero - e per nostra fortuna anche in alcuni illuminati centri nostrani - si è capito che l’economia della conoscenza e gli investimenti culturali sono uno degli ingredienti della ricetta per il progresso sociale, a Roma si decide di operare in senso contrario. Chi lavora nel settore culturale ormai non ce la fa più a sentire le solite nauseanti tiritere che sostengono che i finanziamenti alle arti sottraggono soldi agli ospedali, alle scuole e al sociale, come se si trattasse di una guerra –tra poveri- tra settori in competizione, quasi che l’amministrazione pubblica fosse di fronte ad un rigido trade-off.
A Roma a farne le spese sarà quella cultura contemporanea che è stata il fiore all’occhiello della giunta di Veltroni: estate romana e Notte Bianca in primis e, si preannuncia, jazz e cinema.
Umberto Croppi, nuovo Assessore alla Cultura – nonché direttore della Fondazione Valore Italia - ha dichiarato alla stampa: “Estate romana e Notte Bianca dovremo riprogettarle alla luce delle mutate esigenze, mentre su altre [manifestazioni culturali nda], come la Festa del cinema, stiamo pensando alcune proposte”. Nel frattempo la Notte Bianca è stata annullata e il programma per l’estate romana ridotto; le istituzioni collegate all’evento e gli esercenti hanno già inviato una lettera di protesta al Sindaco, affinché riveda le posizioni della Giunta.
A quanto ammontino i tagli annunciati non è ancora dato sapere, però dalle dichiarazioni fatte ai media pare che in un futuro non precisato ci saranno i soldi per smantellare la teca di Meier e riposizionarla altrove, investire in un altro intervento sullo stesso luogo e liberare la Capitale “da tutti gli sfregi”; riportandola forse al suo antico o tuttalpiù neoclassico splendore. Inoltre, cavalcando lo spirito nostalgico tanto a caro a certa politica italiana poco incline al rinnovamento, si pensa già ad un nuovo museo che celebri Roma e il suo passato. Ci si chiede con quali soldi verrà finanziato il progetto… ma forse allora gli ospedali di Roma saranno stati tutti risanati e le emergenze sociali saranno solo un vecchio ricordo legato all’amministrazione passata.
Aurore Valade in mostra a Torino
Aurore Valade, Tutu rose
La GAS - Gagliardi Art System Gallery di Torino presenta, per la prima volta in Italia alcuni lavori di Aurore Valade, giovanissima marsigliese già conosciuta in patria. A soli 26 anni ha già esposto in diversi spazi culturali e recentemente è stata selezionata per una mostra al Musée d'Art Moderne de Collioure, segno di una maturità artistico-intellettuale insolita e autentica.
Alla GAS, Valade presenta “Intérieurs avec figures” a cura di Maria Cristina Strati: sedici fotografie, sedici ritratti di ambienti domestici, abitati da una quotidianità annoiata e statica. Non attimi rubati, piuttosto scenografie pompose, curate persino negli infinitesimali dettagli, che presentano momenti di stasi, personaggi rigidi, con una voluta non-espressività sconvolgente ma anche intima e seducente.
Tinte forti, colori brillanti, quasi un voyeurismo fotografico che ricorda La Chapelle, ma meno morboso e non altrettanto kitch. Valade ci racconta di interni abitati da figure, in prevalenza femminili, immortalate in pose teatrali, che rendono i lavori un ponte tra un’indagine sul quotidiano e scenari surreali. Interni quasi barocchi, sguardi vacui, cura maniacale della rappresentazione che ricorda alcune composizioni di Velàzquez.
Donne, bambine e animali domestici i soggetti principali, gli uomini -rari- paiono orpelli, soprammobili posti accanto ad un’infinità di altri oggetti accatastati, o meglio: accumulati, in un caos così ordinato da sembrare compulsivo.
Ciò che più colpisce e lo sguardo di queste donne che raramente si volge allo spettatore: espressioni assenti, rigide, prive di emozioni tanto da sconcertare. E le bambine (ennesimo omaggio a Las Meninas del maestro spagnolo) disturbano; impietrite, perfette, bambole vacue prive di qualsiasi moto d’animo.
Le fotografie indugiano su scenografie plurilivello: oggetti su piani diversi, specchi, porte… un gioco di distanze che cattura lo sguardo, invitando lo spettatore ad abbandonare la passività e ad addentrarsi in una fruizione meno superficiale.
L’identità femminile e le mura domestiche sono il centro della ricerca estetica di Valade che pare rappresentare una tristezza esistenziale, quasi cosmica, dove il cosmo è lo spazio casalingo, pieno zeppo di oggetti e ornamenti del tutto superflui.
Gli artifici presenti sulla scena divengono la maschera senza espressione sui volti dei personaggi. Qual è il posto della donna oggi? In una analisi che presenta spaccati quotidiani di persone di estrazione sociale evidentemente diversa, ciò che accomuna le donne ritratte è lo stesso spirito piatto, quasi funereo, di accettazione passiva della realtà.
La GAS - Gagliardi Art System Gallery di Torino presenta, per la prima volta in Italia alcuni lavori di Aurore Valade, giovanissima marsigliese già conosciuta in patria. A soli 26 anni ha già esposto in diversi spazi culturali e recentemente è stata selezionata per una mostra al Musée d'Art Moderne de Collioure, segno di una maturità artistico-intellettuale insolita e autentica.
Alla GAS, Valade presenta “Intérieurs avec figures” a cura di Maria Cristina Strati: sedici fotografie, sedici ritratti di ambienti domestici, abitati da una quotidianità annoiata e statica. Non attimi rubati, piuttosto scenografie pompose, curate persino negli infinitesimali dettagli, che presentano momenti di stasi, personaggi rigidi, con una voluta non-espressività sconvolgente ma anche intima e seducente.
Tinte forti, colori brillanti, quasi un voyeurismo fotografico che ricorda La Chapelle, ma meno morboso e non altrettanto kitch. Valade ci racconta di interni abitati da figure, in prevalenza femminili, immortalate in pose teatrali, che rendono i lavori un ponte tra un’indagine sul quotidiano e scenari surreali. Interni quasi barocchi, sguardi vacui, cura maniacale della rappresentazione che ricorda alcune composizioni di Velàzquez.
Donne, bambine e animali domestici i soggetti principali, gli uomini -rari- paiono orpelli, soprammobili posti accanto ad un’infinità di altri oggetti accatastati, o meglio: accumulati, in un caos così ordinato da sembrare compulsivo.
Ciò che più colpisce e lo sguardo di queste donne che raramente si volge allo spettatore: espressioni assenti, rigide, prive di emozioni tanto da sconcertare. E le bambine (ennesimo omaggio a Las Meninas del maestro spagnolo) disturbano; impietrite, perfette, bambole vacue prive di qualsiasi moto d’animo.
Le fotografie indugiano su scenografie plurilivello: oggetti su piani diversi, specchi, porte… un gioco di distanze che cattura lo sguardo, invitando lo spettatore ad abbandonare la passività e ad addentrarsi in una fruizione meno superficiale.
L’identità femminile e le mura domestiche sono il centro della ricerca estetica di Valade che pare rappresentare una tristezza esistenziale, quasi cosmica, dove il cosmo è lo spazio casalingo, pieno zeppo di oggetti e ornamenti del tutto superflui.
Gli artifici presenti sulla scena divengono la maschera senza espressione sui volti dei personaggi. Qual è il posto della donna oggi? In una analisi che presenta spaccati quotidiani di persone di estrazione sociale evidentemente diversa, ciò che accomuna le donne ritratte è lo stesso spirito piatto, quasi funereo, di accettazione passiva della realtà.
Estetica del disgusto? La biennale di Sidney stupisce il proprio pubblico.
Andres Serrano, Morgue
Dai nudi di Michelangelo alla Merda d’artista di Piero Manzoni, passando per la serie Morgue di Andrè Serrano, l’arte di tutti i tempi ha prodotto opere conturbanti, al limite dell’accettazione, capaci di schioccare e impossibili da osservare senza un moto emotivo complesso e ambivalente. È pur vero che l’arte deve produrre discontinuità attraverso l’indagine del reale, che è per sua natura confuso, ambiguo, talvolta tragico o grottesco. È altrettanto vero che, di fronte a certi temi l’unico giudizio che vale è quello del singolo, influenzato ovviamente dal contesto storico-sociale. Il semiologo Paolo Fabbri si occupa con ironia e irriverenza della materia da lui ideata: Estetiche del disgusto e, per chi ha avuto modo di ascoltarne le lezioni o di leggere i suoi scritti, offre una interessante panoramica sull’argomento.
Da sempre i temi che confondo riguardano la sfera dell’etica sentimentale più che del gusto: la vita e la morte, la religione, il corpo e le sue aberranti derivazioni: mutilazioni, escrementi, ferite, sesso…
Come non pensare a Gilbert&Gorge, o a Marina Abramovich? O al nostro Oliviero Toscani, cacciato da Benetton dopo numerose campagne pubblicitarie, provocanti ma accettate, nel momento in cui fotografò i detenuti nel braccio della morte, scatenando una serie di discussioni collettive controproducenti rispetto all’obiettivo della casa di moda? E come tralasciare la recente polemica scatenata in Alto-Adige dall’esposizione della rana crocifissa di Martin Kippenberger?
Alla Biennale di Sidney, in corso in questo momento, la palma per il lavoro considerato osceno va all’australiano Mike Parr. I visitatori si sono rivolti alle forze dell’ordine dopo aver visto un video nel quale l’artista decapita un pollo. Il video era preceduto da un cartello informativo che ne scoraggiava la visione ai minorenni, ma secondo la polizia l’avviso avrebbe dovuto essere più dettagliato. La Biennale propone una serie di lavori di Parr nei quali l’artista infligge su se stesso tagli o piccole ustioni, sutura sul proprio volto della carne e vomita tintura blu.
Gli organizzatori dell’evento hanno ovviamente difeso Parr, lodandone il lavoro contemporaneo in linea con il tema della Biennale: Revolutions – Forms That Turn.
A Sidney pare siano oggetto di discussione anche il Cristo crocifisso sulle ali di un aereo bellico americano, opera di Leon Ferrari che dal 1965 viene censurata e criticata e allo stesso tempo osannata, come sempre in questi casi.
Da parte nostra, l’Italia è ben rappresentata da Maurizio Cattelan e dal suo Novecento, il cavallo tassermizzato appeso al soffitto. Chissà che effetto avrebbero sui visitatori puritani alcune delle altre opere di Cattelan: bambini impiccati in piazza, o costretti nei banchi scolastici, o ancora il Papa colpito da un meteorite o lo scoiattolo suicida…
Insomma, la Biennale di Sidney, curata da Carolyn Christov-Bakargiev, propone arte per tutti i gusti e disgusti… assolutamente da non perdere!
I corsi sbarcano in Sardegna: la collezione del Frac Corso al MAN di Nuoro
Torna l’arte contemporanea al MAN – Museo delle arti di Nuoro con una nuova grande mostra nella quale viene presentata la collezione FRAC Corsa, fino al 5 ottobre. In Francia ogni regione possiede un fondo per gli interventi culturali dotato di un’autonomia d’acquisto e di una propria collezione d’arte. È l’essenza dell’investimento pubblico in arte, tradizione regionale di un paese nel quale la laicità e il mecenatismo pubblici vengono considerati valori imprescindibili alla base di un sano sviluppo collettivo.
In Corsica il Frac si arricchisce di quelle caratteristiche di orgoglio identitario e radici culturali che rendono il progetto unico sotto diversi punti di vista. Innanzi tutto si tratta dell’unico programma di dimensione nazionale al quale la Corsica abbia scelto di aderire; ha statuto associativo ed è nato nel 1986, quindi precede di alcuni anni la creazione dei vari FRAC sul territorio francese.
Vanta una collezione di tutto rispetto, considerata dagli esperti del settore come il frutto di scelte esigenti e audaci. Inoltre il FRAC Corso dal 1998 ha deciso di dedicare gran parte delle proprie azioni agli investimenti in arte contemporanea, decidendo così di sostenere un settore che fino ad allora non caratterizzava l’isola mediterranea, più conosciuta per la storia primitiva o per aver dato i natali all’illustre imperatore ottocentesco.
La collezione del Frac si prefigge di rendere accessibile a un vasto pubblico le opere create negli ultimi trent’anni nonché le emergenze artistiche più recenti, l’attività dell’ente è infatti caratterizzata da un’attenta ricerca.
Inoltre il Fondo sostiene gli artisti attraverso l’erogazione di borse di studio o di soggiorni studio in residenze per creativi. I progetti che finanzia sono spesso legati alle questioni territoriali e ambientali tipiche del nostro tempo ma soprattutto della tradizione insulare, in un’ottica di etica socio-politica e di sviluppo territoriale: si promuove infatti la realizzazione di opere site-specific o comunque create in loco, affinché la regione divenga un centro di produzione artistica, in grado di attrarre capitale umano e risorse finanziarie.
Il fondo si prefigge, tra le altre azioni, di favorire la circolazione della propria collezione in tutt’Europa, a tal fine sono state sviluppate diverse piattaforme collaborative con istituzioni partners. L’ultima importante sinergia ha dato vita alla mostra “Mondo e Terra” al MAN – Museo d’Arte di Nuoro, consolidando la cooperazione tra due enti che già lavorano di concerto da una decina d’anni e che, su territori diversi, perseguono gli stessi obiettivi.
I forti legami e le idiosincrasie delle due isole sono da sempre terreno di scambio e conoscenza reciproca. L’insularità come condizione di demarcazione e allo stesso tempo di apertura è il tema che soggiace all’esposizione; Mondo e Terra, due facce della stessa medaglia, come le due complementari parti del tao cinese. Il tema della mostra sancisce l’attenzione degli artisti e degli organizzatori alle questioni che caratterizzano la nostra società. Attraverso l’arte il territorio viene reinventato, l’ambiente si trasforma e i limiti geografici – che sono prima di tutto limiti mentali - vengono superati.
Una mostra quanto mai attuale sia per i temi trattati, sia per la giovane età delle opere esposte. Una condivisione di visioni che è intimità e calore tra popoli diversi che parallelamente percorrono le stesse strade bruciate dal sole. Al MAN l’arte celebra il suo legame con la società, la sua storia e le sue culture, non più orpello decorativo e distante, entra prepotentemente nella vita quotidiana, pretende una presa di coscienza, urla per ridestare gli intelletti.
In Corsica il Frac si arricchisce di quelle caratteristiche di orgoglio identitario e radici culturali che rendono il progetto unico sotto diversi punti di vista. Innanzi tutto si tratta dell’unico programma di dimensione nazionale al quale la Corsica abbia scelto di aderire; ha statuto associativo ed è nato nel 1986, quindi precede di alcuni anni la creazione dei vari FRAC sul territorio francese.
Vanta una collezione di tutto rispetto, considerata dagli esperti del settore come il frutto di scelte esigenti e audaci. Inoltre il FRAC Corso dal 1998 ha deciso di dedicare gran parte delle proprie azioni agli investimenti in arte contemporanea, decidendo così di sostenere un settore che fino ad allora non caratterizzava l’isola mediterranea, più conosciuta per la storia primitiva o per aver dato i natali all’illustre imperatore ottocentesco.
La collezione del Frac si prefigge di rendere accessibile a un vasto pubblico le opere create negli ultimi trent’anni nonché le emergenze artistiche più recenti, l’attività dell’ente è infatti caratterizzata da un’attenta ricerca.
Inoltre il Fondo sostiene gli artisti attraverso l’erogazione di borse di studio o di soggiorni studio in residenze per creativi. I progetti che finanzia sono spesso legati alle questioni territoriali e ambientali tipiche del nostro tempo ma soprattutto della tradizione insulare, in un’ottica di etica socio-politica e di sviluppo territoriale: si promuove infatti la realizzazione di opere site-specific o comunque create in loco, affinché la regione divenga un centro di produzione artistica, in grado di attrarre capitale umano e risorse finanziarie.
Il fondo si prefigge, tra le altre azioni, di favorire la circolazione della propria collezione in tutt’Europa, a tal fine sono state sviluppate diverse piattaforme collaborative con istituzioni partners. L’ultima importante sinergia ha dato vita alla mostra “Mondo e Terra” al MAN – Museo d’Arte di Nuoro, consolidando la cooperazione tra due enti che già lavorano di concerto da una decina d’anni e che, su territori diversi, perseguono gli stessi obiettivi.
I forti legami e le idiosincrasie delle due isole sono da sempre terreno di scambio e conoscenza reciproca. L’insularità come condizione di demarcazione e allo stesso tempo di apertura è il tema che soggiace all’esposizione; Mondo e Terra, due facce della stessa medaglia, come le due complementari parti del tao cinese. Il tema della mostra sancisce l’attenzione degli artisti e degli organizzatori alle questioni che caratterizzano la nostra società. Attraverso l’arte il territorio viene reinventato, l’ambiente si trasforma e i limiti geografici – che sono prima di tutto limiti mentali - vengono superati.
Una mostra quanto mai attuale sia per i temi trattati, sia per la giovane età delle opere esposte. Una condivisione di visioni che è intimità e calore tra popoli diversi che parallelamente percorrono le stesse strade bruciate dal sole. Al MAN l’arte celebra il suo legame con la società, la sua storia e le sue culture, non più orpello decorativo e distante, entra prepotentemente nella vita quotidiana, pretende una presa di coscienza, urla per ridestare gli intelletti.
Antonella Cinelli, Elena Monzo, Sonia Ceccotti: Ipotesi di Senso
Nella Kunsthalle di Vitulano, Giamaart, è stata realizzata una nuova mostra di pittura che promuove la giovane arte italiana. In particolare questa volta viene presentata la giovane arte donna: a rappresentare la categoria Sonia Ceccotti, Elena Monzo, Antonella Cinelli. Tre poetiche differenti che partono da un sentire comune, quello femminile, ammesso che esista un sentire comune legato al sesso, più corretto quindi parlare in questo caso di un sentire comune legato alla solitudine, all'esplorazione di sè, alla riflessione esistenziale. Catologo e titolo della mostra ci informano che le artiste volontariamente desiderano che le opere siano passibili di più interpretazioni, caratteristica che accomuna i grandi maestri e coloro che non hanno nulla da dire... allora di buona lena e con spirito pionerie ci accingiamo alla personale lettura critica di "Ipotesi di senso". Le opere, disposte ordinatamente sulle pareti, abitano bene lo spazio e paiono dialogare tra loro raccontandoci una femminilità turbata qui, annoiata là, frutto di una indagine pittorica attenta al dettaglio.
Ceccotti ritrae donne (o meglio: si autoritrae, considerata la somiglianza evidente tra il proprio volto e quelli dipinti) annoiate da principi ranocchi invadenti, beffardi e conformati nello stile e nell'approccio; come uomini identici tra loro, con tanto di appariscente corona ad indicare il proprio status ma dai sorrisi poco intelligenti. Colori vivaci e una tecnica quasi adolescenziale, ragazze apatiche in bilico tra tedio e solutidine, rappresentate all'interno delle mura domestiche in abiti succinti ma non provocanti, tuttalpiù casalinghi. Neppure le ragazze di Antonella Cinelli risultano tanto serene. Due serie di ritratti eseguiti con tecnica certosina e iper-realista: la prima è un gioco di luci e ombre sul primo piano di una donna che piange, sfatto il trucco e dark la composizione, secondo un gusto quasi gotico; la seconda presenta donne semi-svestite, in biancheria. Anche qui non v'è una componente prettamente sensuale, quanto una profondamente intimistica, onirica.
Infine Elena Monzo presenta una serie di opere su carta a un'installazione scultorea. I disegni, il cui tratto straborda i confini del foglio e colonizza la parete, creando continuità, quasi come se la forza dell'opera non riuscisse a essere contenuta nello spazio cartaceo ed esondasse. Un tratto che ricorda alcuni disegni di tradizione nipponica, nella quale la delicatezza dello stile contrasta con la violenza delle immagini e dei colori. E della tradizione nipponica Monzo preleva anche il feticismo legato agli slip femminili: una sequenza di questi, inamidati con la resina e decorati con figurine umane, capeggiano sulle pareti della galleria. Le tre artiste lavorano quindi sull'intimità, sul sesso, senza per questo essere volgari, con una delicatezza però non leggera, ma che ci appesantisce con questioni sulla figura femminile contemporanea.
Ceccotti ritrae donne (o meglio: si autoritrae, considerata la somiglianza evidente tra il proprio volto e quelli dipinti) annoiate da principi ranocchi invadenti, beffardi e conformati nello stile e nell'approccio; come uomini identici tra loro, con tanto di appariscente corona ad indicare il proprio status ma dai sorrisi poco intelligenti. Colori vivaci e una tecnica quasi adolescenziale, ragazze apatiche in bilico tra tedio e solutidine, rappresentate all'interno delle mura domestiche in abiti succinti ma non provocanti, tuttalpiù casalinghi. Neppure le ragazze di Antonella Cinelli risultano tanto serene. Due serie di ritratti eseguiti con tecnica certosina e iper-realista: la prima è un gioco di luci e ombre sul primo piano di una donna che piange, sfatto il trucco e dark la composizione, secondo un gusto quasi gotico; la seconda presenta donne semi-svestite, in biancheria. Anche qui non v'è una componente prettamente sensuale, quanto una profondamente intimistica, onirica.
Infine Elena Monzo presenta una serie di opere su carta a un'installazione scultorea. I disegni, il cui tratto straborda i confini del foglio e colonizza la parete, creando continuità, quasi come se la forza dell'opera non riuscisse a essere contenuta nello spazio cartaceo ed esondasse. Un tratto che ricorda alcuni disegni di tradizione nipponica, nella quale la delicatezza dello stile contrasta con la violenza delle immagini e dei colori. E della tradizione nipponica Monzo preleva anche il feticismo legato agli slip femminili: una sequenza di questi, inamidati con la resina e decorati con figurine umane, capeggiano sulle pareti della galleria. Le tre artiste lavorano quindi sull'intimità, sul sesso, senza per questo essere volgari, con una delicatezza però non leggera, ma che ci appesantisce con questioni sulla figura femminile contemporanea.
I^ Biennale internazionale dell’Arte Giovane, Mosca. 1 – 31 luglio 2008
(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°6 - settembre/ottobre 2008)
Ci sono città fortunate nelle quali ogni anno ha luogo una biennale: a Venezia, per esempio, il giro di valzer vede protagonista un anno l’arte contemporanea, quello successivo l’archittettura; Lione alterna l’arte contemporanea alla danza e ora Mosca, dopo il successo delle prime due edizioni della Biennale cittadina, decide di dedicare gli anni pari alla Biennale internazionale dell’Arte Giovane.In realtà un festival internazionale dedicato alla Giovane Arte si è svolto presso il Centro d’Arte Contemporanea di Mosca a cadenza annuale dal 2002 al 2006, ma ora quel progetto è cresciuto ed è stato promosso, passando da avvenimento annuale a grande evento dal respiro internazionale che solo il format della Biennale - con la conseguente inclusione di tante competenze - può garantire.
Un progetto ambizioso, unico nel suo genere, curato da un comitato di esperti presieduto da Daria Pyrkina, storica e critica dell’arte a capo del New Generation Programme of the National Centre for Contemporary Arts.
La Biennale junior è stata fortemente voluta dagli enti locali (Federal Agency for Culture and Cinematography; Moscow Department of Culture; National Centre for Contemporary Arts; Moscow Museum of Modern Art) e si svolgerà principalemente nel National Centre for Contemporary Arts e nel Museo di Arte Moderna di Mosca. Ovviamente però numerose gallerie, centri d’arte e associazioni sono i complici dell’evento che per tutto il mese di luglio animerà la capitale Russa. Inoltre, gli organizzatori hanno deciso di coinvolgere principalmente curatori free-lance e associazioni di giovani artisti che hanno interesse a promuovere le recenti emergenze artistiche.
La missione è sostenere la nuovissima generazione di artisti e permettere al vasto pubblico di apprezzarne la creatività.
Il comitato curatoriale ha dichiarato alla stampa di aver deciso di non attenersi solamente all’età degli artisti per selezionare le opere, ma di aver utilizzato criteri complessi per valutare lo stadio di maturità dell’attività creativa degli stessi. Rimane il dubbio su quali siano i parametri oggettivi da utilizzare per una scelta simile, ma il team evidentemente ha deciso di non attenersi a schemi rigidi che l’arte è in grado di superare: pare siano stati cercati, quale denominatore comune delle opere scelte, una sorta di spirito giovanile, un pathos fresco e autentico, una nuova visione e un approccio metodologico originale.
La domanda posta (che è il tema stesso della manifestazione) è Qui vive?, quesito al quale gli artisti selezionati (in gran parte comunque di età anagrafica al di sotto dei 35 anni) hanno cercato di dare risposta ingegnandosi in nuove strategie, concezioni e tecnologie, come indicato nella chiamata a concorso. Moltissimi i selezionati che ancora non hanno avuto la possibilità di esibire i propri lavori in una mostra permanente, altra condizione preferenziale per essere accettati. La Biennale ha precisato infatti di voler celebrare un’espressività “pura, libera dalle contaminazioni del mercato” che privilegi i talenti naif ed estemporanei. A dire il vero il proposito ci pare un po’ utopico o, meglio, volutamente ingenuo, ma tant’è, lo seguiamo con curiosità e passione come si confà in caso di un evento nuovo, di sicura qualità (data la fama degli organizzatori e degli attori coinvolti) e che si prefigge di portare idee innovative e differenti. Insomma, finalmente una proposta inedita che apporterà sicuramente punti di vista interessanti.
A tal proposito, l’annuncio della Biennale ha già prodotto un fermento di galleristi, collezionisti e appassionati in cerca di talenti e interessati alle nuove leve, all’arte inedita o più pragmaticamente agli investimenti sul lungo termine. Auspichiamo che i riscontri siano positivi per la neonata avventura moscovita e soprattutto per i giovani artisti, ai quali non possiamo che augurare la buona sorte, in un momento in cui il mercato pare essere in crisi, rendendo ostico l’inserimento dei nuovi talenti.
Per quanto riguarda l’Italia, l’organizzazione partners del progetto russo (e quindi incaricata di progettare la retrospettiva sulla giovane arte italiana) è l’Istituto Garuzzo per le Arti di Torino che per l’occasione ha organizzato la mostra “Oltre i confini del corpo”, curata da Marisa Vescovo e Alessandro Carter. A Mosca ci rappresenteranno: Bianco e Valente, Domenico Borrelli, Filippo Centenari, Davide Coltro, Paolo Consorti, Daniele Girardi Paolo Grassino, Diego Scroppo, Francesco Sena, Saverio Todaro, Fabio Viale; non proprio dei giovani sconosciuti, si potrebbe obiettare, ma di sicuro dei validi ambasciatori che, ne siamo certi, faranno apprezzare la giovane arte italiana all’estero.
Ci sono città fortunate nelle quali ogni anno ha luogo una biennale: a Venezia, per esempio, il giro di valzer vede protagonista un anno l’arte contemporanea, quello successivo l’archittettura; Lione alterna l’arte contemporanea alla danza e ora Mosca, dopo il successo delle prime due edizioni della Biennale cittadina, decide di dedicare gli anni pari alla Biennale internazionale dell’Arte Giovane.In realtà un festival internazionale dedicato alla Giovane Arte si è svolto presso il Centro d’Arte Contemporanea di Mosca a cadenza annuale dal 2002 al 2006, ma ora quel progetto è cresciuto ed è stato promosso, passando da avvenimento annuale a grande evento dal respiro internazionale che solo il format della Biennale - con la conseguente inclusione di tante competenze - può garantire.
Un progetto ambizioso, unico nel suo genere, curato da un comitato di esperti presieduto da Daria Pyrkina, storica e critica dell’arte a capo del New Generation Programme of the National Centre for Contemporary Arts.
La Biennale junior è stata fortemente voluta dagli enti locali (Federal Agency for Culture and Cinematography; Moscow Department of Culture; National Centre for Contemporary Arts; Moscow Museum of Modern Art) e si svolgerà principalemente nel National Centre for Contemporary Arts e nel Museo di Arte Moderna di Mosca. Ovviamente però numerose gallerie, centri d’arte e associazioni sono i complici dell’evento che per tutto il mese di luglio animerà la capitale Russa. Inoltre, gli organizzatori hanno deciso di coinvolgere principalmente curatori free-lance e associazioni di giovani artisti che hanno interesse a promuovere le recenti emergenze artistiche.
La missione è sostenere la nuovissima generazione di artisti e permettere al vasto pubblico di apprezzarne la creatività.
Il comitato curatoriale ha dichiarato alla stampa di aver deciso di non attenersi solamente all’età degli artisti per selezionare le opere, ma di aver utilizzato criteri complessi per valutare lo stadio di maturità dell’attività creativa degli stessi. Rimane il dubbio su quali siano i parametri oggettivi da utilizzare per una scelta simile, ma il team evidentemente ha deciso di non attenersi a schemi rigidi che l’arte è in grado di superare: pare siano stati cercati, quale denominatore comune delle opere scelte, una sorta di spirito giovanile, un pathos fresco e autentico, una nuova visione e un approccio metodologico originale.
La domanda posta (che è il tema stesso della manifestazione) è Qui vive?, quesito al quale gli artisti selezionati (in gran parte comunque di età anagrafica al di sotto dei 35 anni) hanno cercato di dare risposta ingegnandosi in nuove strategie, concezioni e tecnologie, come indicato nella chiamata a concorso. Moltissimi i selezionati che ancora non hanno avuto la possibilità di esibire i propri lavori in una mostra permanente, altra condizione preferenziale per essere accettati. La Biennale ha precisato infatti di voler celebrare un’espressività “pura, libera dalle contaminazioni del mercato” che privilegi i talenti naif ed estemporanei. A dire il vero il proposito ci pare un po’ utopico o, meglio, volutamente ingenuo, ma tant’è, lo seguiamo con curiosità e passione come si confà in caso di un evento nuovo, di sicura qualità (data la fama degli organizzatori e degli attori coinvolti) e che si prefigge di portare idee innovative e differenti. Insomma, finalmente una proposta inedita che apporterà sicuramente punti di vista interessanti.
A tal proposito, l’annuncio della Biennale ha già prodotto un fermento di galleristi, collezionisti e appassionati in cerca di talenti e interessati alle nuove leve, all’arte inedita o più pragmaticamente agli investimenti sul lungo termine. Auspichiamo che i riscontri siano positivi per la neonata avventura moscovita e soprattutto per i giovani artisti, ai quali non possiamo che augurare la buona sorte, in un momento in cui il mercato pare essere in crisi, rendendo ostico l’inserimento dei nuovi talenti.
Per quanto riguarda l’Italia, l’organizzazione partners del progetto russo (e quindi incaricata di progettare la retrospettiva sulla giovane arte italiana) è l’Istituto Garuzzo per le Arti di Torino che per l’occasione ha organizzato la mostra “Oltre i confini del corpo”, curata da Marisa Vescovo e Alessandro Carter. A Mosca ci rappresenteranno: Bianco e Valente, Domenico Borrelli, Filippo Centenari, Davide Coltro, Paolo Consorti, Daniele Girardi Paolo Grassino, Diego Scroppo, Francesco Sena, Saverio Todaro, Fabio Viale; non proprio dei giovani sconosciuti, si potrebbe obiettare, ma di sicuro dei validi ambasciatori che, ne siamo certi, faranno apprezzare la giovane arte italiana all’estero.
BJCEM - XIII Biennale dei Giovani Artisti dell'Europa e del Mediterraneo
Bjcem, Biennale dei Giovani Artisti dell'Europa e del Meditteraneo è approdata quest'anno a Bari e, dal 22 al 31 maggio ha letteralmente colonizzato gli spazi cittadini. Musica, teatro, danza, arti visive, workshop, video, cinema, letteratura e poesia rendono ogni edizione di Bjcem un evento multidisciplinare che favorisce le contaminazioni artistiche, geografiche, politiche e sociali, in un gioco culturale dal forte impatto economico. Rilanciare un territorio attraverso la creatività, promuovere gli scambi culturali, favorire la conoscenza delle arti e avvicinare nuovi segmenti di pubblico: sono alcuni degli obiettivi previsti da questa tredicesima edizione.
Bari, città europea che affaccia sui Balcani e sul medio oriente, ha ospitato 700 artisti, tutti di età compresa tra i diciotto e i trent'anni, provenienti da quarantasei paesi dell'Europa e del Mediterranneo. La Biennale tradizionalmente non sa rispettare i confini e ne va fiera: sono infatti arrivate a Bari le produzioni della Nazione Rom, che, nonostante l'assenza sulle mappe geografiche e la scandalosa intolleranza che contraddistingue la cronaca più recente, rappresenta un gruppo vivace dall'affascinante tradizione culturale. Non solo: Bjcem ha saputo anche questa volta superare i limiti geografici tuttora in divenire di certe zone permettendo agli artisti e ai visitatori di superare le divisioni politiche e le ostilità belliche. Si è parlato di "pacifica invasione", di "artisti clandestini", di "cittadinanza universale" in una biennale che si è caratterizzata anche per l'impegno politico. Nata proprio allo scopo di facilitare l'interscambio e il dialogo culturale, dimostra come l'arte possa favorire lo sviluppo della rete di cooperazione internazionale; si rivela inoltre un imperdibile appuntamento per la valutazione delle espressioni artistiche generazionali. La fiera è sembrata organizzata da simpatici rivoluzionari e da utopistici visionari: sono state organizzate non-conferenze sulla creatività giovanile e una Biennale/off che ha coinvolto le gallerie baresi interessate alla ricerca di nuovi talenti. Inoltre la notte della moda, il cabaret, il reading corale di poesia, lo sbarco di artisti albanesi giunti in gommone, film e documentari, virtuosismi musicali hanno saputo coinvolgere intensamente il territorio.
La Fiera del Levante di Bari, già luogo di scambi, si è trasformata nella Cittadella della Creatività, nella quale si sono alternati momenti culturali di ogni tipo, seguendo un programma ricco e variegato, all'insegna del confronto pacifico e solidale.
E la ricetta funziona: gli organizzatori hanno calcolato almeno tremila presenze quotidiane, in prevalenza di giovani fruitori, agli eventi serali organizzati durante la manifestazione. Inoltre la Biennale non si è svolta solo alla Fiera: per estemporanea volontà di gruppi di artisti e di cittadini, la festa si è riversata nelle strade cittadine: parate di artisti, gruppi musicali e masse di partecipanti hanno improvvisato performance musicali per le strade di Bari, coinvolgendo un gran numero di gioiosi cittadini. Allo stesso modo, gli artisti baresi hanno invaso la fiera in un momento di vero incontro culturale.
Questo a dimostrazione di quanto la Regione Puglia e la città di Bari siano pronte ad appassionarsi e a mobilitarsi all'insegna di una trasformazione socio-culturale che speriamo non resti un evento isolato. Si tratta di un territorio da sempre caratterizzato da mescolanze straordinarie, sedimentate e mescolate... Greci, Romani, Arabi, Turchi Normanni hanno lasciato preziose eredità. La posizione geografica e le scelte politiche che hanno portato al rinnovamento di questi ultimi anni sono le basi che hanno permesso alla Biennale di insediarsi per dieci ricchi giorni. Ci auguriamo che la Bjcem sia davvero trampolino di lancio, che i contatti, le collaborazioni, le conoscenze di questi giorni fruttino! E che fruttino sul lungo periodo!
Bari, città europea che affaccia sui Balcani e sul medio oriente, ha ospitato 700 artisti, tutti di età compresa tra i diciotto e i trent'anni, provenienti da quarantasei paesi dell'Europa e del Mediterranneo. La Biennale tradizionalmente non sa rispettare i confini e ne va fiera: sono infatti arrivate a Bari le produzioni della Nazione Rom, che, nonostante l'assenza sulle mappe geografiche e la scandalosa intolleranza che contraddistingue la cronaca più recente, rappresenta un gruppo vivace dall'affascinante tradizione culturale. Non solo: Bjcem ha saputo anche questa volta superare i limiti geografici tuttora in divenire di certe zone permettendo agli artisti e ai visitatori di superare le divisioni politiche e le ostilità belliche. Si è parlato di "pacifica invasione", di "artisti clandestini", di "cittadinanza universale" in una biennale che si è caratterizzata anche per l'impegno politico. Nata proprio allo scopo di facilitare l'interscambio e il dialogo culturale, dimostra come l'arte possa favorire lo sviluppo della rete di cooperazione internazionale; si rivela inoltre un imperdibile appuntamento per la valutazione delle espressioni artistiche generazionali. La fiera è sembrata organizzata da simpatici rivoluzionari e da utopistici visionari: sono state organizzate non-conferenze sulla creatività giovanile e una Biennale/off che ha coinvolto le gallerie baresi interessate alla ricerca di nuovi talenti. Inoltre la notte della moda, il cabaret, il reading corale di poesia, lo sbarco di artisti albanesi giunti in gommone, film e documentari, virtuosismi musicali hanno saputo coinvolgere intensamente il territorio.
La Fiera del Levante di Bari, già luogo di scambi, si è trasformata nella Cittadella della Creatività, nella quale si sono alternati momenti culturali di ogni tipo, seguendo un programma ricco e variegato, all'insegna del confronto pacifico e solidale.
E la ricetta funziona: gli organizzatori hanno calcolato almeno tremila presenze quotidiane, in prevalenza di giovani fruitori, agli eventi serali organizzati durante la manifestazione. Inoltre la Biennale non si è svolta solo alla Fiera: per estemporanea volontà di gruppi di artisti e di cittadini, la festa si è riversata nelle strade cittadine: parate di artisti, gruppi musicali e masse di partecipanti hanno improvvisato performance musicali per le strade di Bari, coinvolgendo un gran numero di gioiosi cittadini. Allo stesso modo, gli artisti baresi hanno invaso la fiera in un momento di vero incontro culturale.
Questo a dimostrazione di quanto la Regione Puglia e la città di Bari siano pronte ad appassionarsi e a mobilitarsi all'insegna di una trasformazione socio-culturale che speriamo non resti un evento isolato. Si tratta di un territorio da sempre caratterizzato da mescolanze straordinarie, sedimentate e mescolate... Greci, Romani, Arabi, Turchi Normanni hanno lasciato preziose eredità. La posizione geografica e le scelte politiche che hanno portato al rinnovamento di questi ultimi anni sono le basi che hanno permesso alla Biennale di insediarsi per dieci ricchi giorni. Ci auguriamo che la Bjcem sia davvero trampolino di lancio, che i contatti, le collaborazioni, le conoscenze di questi giorni fruttino! E che fruttino sul lungo periodo!
Museion incorona Michael Fliri
(articolo pubblicato su Artkey n°5 - giugno/luglio 2008)
Michael Fliri Getting too old to die young 2008 Video Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano Photo Credits Tizza Covi
All’inaugurazione della nuova sede di Museion, nonostante l’agitazione per l’evento, i grandi ospiti, i numerosi visitatori, c’è stato anche il tempo per assegnare il premio d’artista 2008/2009. Il premio destinato ad artisti altotesini (“per nascita o formazione”, specifica il bando) rafforza la relazione del Museo con il territorio, sottolineando anche il campanilismo che da sempre esiste tra la zona altotesina e la zona trentina della regione di frontiera. Finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano, il premio offre la sistemazione per un semestre in due residenze d’artista, una a Parigi e una a Varsavia. I due bandi però hanno scadenze differenti, quindi per ora è stato assegnata la prima borsa che offre un soggiorno presso il Centre International d’Accueil et d’Echanges des Récollets di Parigi. Vincitore del premio è Michael Fliri artista polivalente che utilizza i medium contemporanei – fotografia e video – per creare installazioni, spesso site-specific. Ironico, alla continua ricerca di paradossi ed elaborazioni imprevedibili è stato scelto dalla commissione “a seguito della particolare attenzione posta nell’affrontare aspetti legati al cambiamento di stato, alla trasformazione, allo sviluppo temporale. Questi mutamenti al centro dell’opera coinvolgono costantemente il corpo stesso dell’artista, proiettato, di volta in volta, all’interno di immaginari sempre differenti. Ad ogni performance vengono presentati nuovi contesti e soluzioni, spesso pervasi da un sottile senso di humour. In questi interventi la sua identità, si trasforma in un’entità differente, “altra”, a volte addirittura partecipe dell’essenza di oggetti inanimati”.
Fliri ha appena inaugurato un’esposizione personale alla Galleria Raffaella Cortese di Milano. Originario dell’Altoadige, ha però studiato a Bologna, Monaco, in Norvegia e a Como.
Michael Fliri Getting too old to die young 2008 Video Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano Photo Credits Tizza Covi
All’inaugurazione della nuova sede di Museion, nonostante l’agitazione per l’evento, i grandi ospiti, i numerosi visitatori, c’è stato anche il tempo per assegnare il premio d’artista 2008/2009. Il premio destinato ad artisti altotesini (“per nascita o formazione”, specifica il bando) rafforza la relazione del Museo con il territorio, sottolineando anche il campanilismo che da sempre esiste tra la zona altotesina e la zona trentina della regione di frontiera. Finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano, il premio offre la sistemazione per un semestre in due residenze d’artista, una a Parigi e una a Varsavia. I due bandi però hanno scadenze differenti, quindi per ora è stato assegnata la prima borsa che offre un soggiorno presso il Centre International d’Accueil et d’Echanges des Récollets di Parigi. Vincitore del premio è Michael Fliri artista polivalente che utilizza i medium contemporanei – fotografia e video – per creare installazioni, spesso site-specific. Ironico, alla continua ricerca di paradossi ed elaborazioni imprevedibili è stato scelto dalla commissione “a seguito della particolare attenzione posta nell’affrontare aspetti legati al cambiamento di stato, alla trasformazione, allo sviluppo temporale. Questi mutamenti al centro dell’opera coinvolgono costantemente il corpo stesso dell’artista, proiettato, di volta in volta, all’interno di immaginari sempre differenti. Ad ogni performance vengono presentati nuovi contesti e soluzioni, spesso pervasi da un sottile senso di humour. In questi interventi la sua identità, si trasforma in un’entità differente, “altra”, a volte addirittura partecipe dell’essenza di oggetti inanimati”.
Fliri ha appena inaugurato un’esposizione personale alla Galleria Raffaella Cortese di Milano. Originario dell’Altoadige, ha però studiato a Bologna, Monaco, in Norvegia e a Como.
Intervista a Franco Bernabè
(articolo pubblicato su Artkey n°5 - giugno/luglio 2008)
Franco Bernabè dal 2004 è presidente del Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto e tra il 2001 e il 2003 è stato presidente della Biennale di Venezia. Bernabè, però, non nasce manager culturale: ha ricoperto prestigiosi incarichi in grandi aziende italiane (Eni, Fiat, Telecom) e presso istituti internazionali (Ocse, Peres Centre for Peace), inoltre alla fine degli anni novanta è stato rappresentante speciale del Governo per la ricostruzione del Kossovo. Oggi è nuovamente alla testa del gruppo Telecom Italia, in veste di amministratore delegato e si occupa contemporaneamente di ITC, nuove tecnologie, energie rinnovabili…
Susanna Sara Mandice: Tradizionalmente, in Italia i vertici del settore culturale sono destinati a uomini e donne di provenienza accademica che indubbiamente svolgono un ottimo lavoro, ma che non sono il frutto di un’esperienza manageriale. Al contrario, il Mart può fregiarsi delle sue competenze alla presidenza e di quelle di Gabriella Belli, critica e storica dell’arte, alla direzione. Quali sono le caratteristiche che rendono un manager d’azienda come lei adatto alla gestione di eventi o istituzioni culturali? Qual è il punto di incontro tra due mondi apparentemente tanto distanti? Franco Bernabè: La collaborazione tra questi due mondi funziona quando c’è complementarietà, quando i diversi soggetti apportano competenze che non possono che integrarsi e creare una sinergia. Gabriella Belli non è solamente una persona che si occupa di storia dell’arte, ha anche una grande capacità organizzativa. Il Mart ha il vantaggio di avere una personalità che possiede una pluralità di competenze oltre che un grandissimo entusiasmo; Gabriella Belli una professionista preparata soprattutto per quanto riguarda il mondo dell’arte ma è anche una persona dalle spiccate capacità organizzative. Per quanto mi riguarda invece, io sono la figura che apporta competenze di tipo manageriale, vale a dire una visione di che cosa debba essere un sistema complesso e di come tale sistema possa funzionare bene, essere armonioso ed efficace nelle realtà che produce. Ecco che le mie mansioni si integrano bene con quella della direttrice. E poi certamente quello che conta e che ci accomuna è l’entusiasmo per il progetto del Mart e per le sue potenzialità di creare in Italia un elemento di stimolo e di traino per il mondo dell’arte contemporanea.
S.S.M. Negli ultimi anni, l’intervento dei privati nel settore culturale si è rivelato necessario: la cultura ha bisogno delle imprese. Si può dire che in qualche modo le imprese abbiano bisogno di investire in cultura? Quali sono le motivazioni che spingono un’azienda a operare in tal senso? F.B. Le ragioni per le quali un’impresa può e deve avere un interesse nei confronti della cultura, e in particolare nei confronti dell’arte, non sono direttamente legate al beneficio d’immagine che se ne può trarre. Normalmente l’efficacia in termini di comunicazione derivante dalle attività di sponsorizzazione è abbastanza ridotta, purtroppo troppo spesso iniziative di questo tipo finiscono per essere operazioni di mecenatismo che non rientrano tra i compiti delle imprese. L’arte e la cultura possono invece essere un decisivo fattore di stimolo e di promozione per una riflessione interna dell’azienda, per indirizzare meglio le energie, per costruire un pensiero parallelo sulle operazioni che l’impresa stessa fa. La creatività è uno stimolo non solo per coloro che hanno la responsabilità della conduzione dell’impresa, ma per tutti quelli che partecipano allo sviluppo della stessa. È un incentivo a ripensare al proprio modo di essere, ai concetti che si sviluppano, al pubblico verso il quale questi concetti sono diretti, e tutto questo va fatto in modo innovativo, anche al limite della provocazione. Ecco: l’impresa è la capacità di innovazione; l’arte è l’innovazione senza mediazione, è la sperimentazione allo stato puro. Questa capacità di innovare dell’arte è qualcosa che per l’impresa è fondamentale. Pertanto contribuire, essere partecipe a un’iniziativa di tipo culturale diviene un incoraggiamento per l’impresa e per la sua crescita che non si riduce a un’attività di puro mecenatismo nei confronti dell’iniziativa scelta.
S.S.M. Nonostante le recenti novità del sistema arte-impresa, talvolta le sinergie tra i settori sono discontinue o di breve periodo. Donazioni sporadiche non denotano un impegno mirato all’investimento in un settore dato. A suo parere i due mondi restano isolati o la situazione italiana sta realmente mutando? F.B. L’Italia ha sempre avuto una grande sensibilità nei confronti dell’arte, essendo un paese nel quale l’arte permea non solo la cultura degli individui, ma anche la geografia del paese. Per un lungo periodo questo rapporto intenso con il mondo dell’arte è stato più un rapporto erudito, di tipo storico. Oggi si sta sviluppando in Italia una nuova emotività nei confronti della contemporaneità, si possono finalmente modificare le relazioni tradizionali. L’arte contemporanea rappresenta una discontinuità forte perché richiede di superare degli schemi che sono soprattutto delle barriere intellettuali, è necessario fare uno sforzo che non è uno sforzo semplice, in particolar modo per chi è ancora legato a una tradizione storico-artistica solida e forte nel campo dell’arte. A mio parere però si stanno via via sviluppando nuovi stimoli per nuove esperienze che si rendono necessarie alla crescita reale del Paese. Mi pare stia prendendo forma una nuova sensibilità che si rivela utile affinché il Paese si apra, si espanda e progredisca non solo culturalmente.
S.S.M. Le recenti scelte del nostro Legislatore paiono voler aprire la strada a collaborazioni arte-impresa. Eppure, rimangono ancora numerose criticità e lacune, soprattutto nel sistema tributario. La giurisprudenza di settore si presenta frammentata e poco organica. Quali crede siano le leggi che favoriscono e quali quelle che limitano tali partecipazioni? Cosa manca al nostro sistema? F.B. Le leggi che possono stimolare tali collaborazioni sono le leggi che riguardano sostanzialmente il trattamento fiscale delle donazioni e delle attività di mecenatismo. Oggi l’amministrazione finanziaria è ancora troppo sospettosa: teme che incentivare l’arte significhi favorire l’elusione o, peggio ancora, l’evasione fiscale. In effetti esistono le possibilità di poter utilizzare a fini non trasparenti gli strumenti che in altri paesi già ci sono. Io credo, però, che vada trovata in prospettiva una modalità che garantisca i risultati previsti dal sistema fiscale, ma che allo stesso tempo incentivi la destinazione di patrimoni alle istituzioni museali e il sostegno economico alle attività artistiche, anziché limitarlo. Tutto questo, ovviamente, con la massima trasparenza e il massimo rigore; certamente c’è la possibilità di combinare le diverse priorità ed è questa la direzione che va perseguita.
S.S.M. Notoriamente sono le grandi aziende a essere coinvolte nei progetti culturali e i grandi eventi e le mostre blockbuster attirano gran parte dei finanziamenti. Come avvicinare le P.M.I. (piccole e medie imprese) che a scapito di una capacità d’investimento minore, possono però contare su un legame forte con i territori di riferimento e con i rispettivi stakeholder? F.B. Se guardiamo all’esperienza del Mart, è chiaro che aziende quali la cantina Lavis e altre piccole e medie imprese hanno capito l’importanza del museo per il territorio e lo sostengono attivamente. Credo che stia alle istituzioni culturali dimostrare la capacità di presenza sul territorio e di attivazione d’interesse da parte della popolazione, quindi porsi anche come un riferimento attivo per le imprese. Bisogna che chi fa cultura sappia diventare un riferimento attivo per le imprese che guardano a questo come a uno strumento per essere più visibili. Probabilmente dove l’iniziativa culturale è più a contatto con il territorio l’obiettivo appare più semplice da raggiungere, prendiamo ancora come esempio il caso del Mart che si trova in una città piccola: le manifestazioni che vengono realizzate sono molto più visibili, la dimensione territoriale, quindi la diffusione delle iniziative sul territorio, si presta maggiormente a un sostegno da parte delle imprese locali. Certamente in un’ottica di stimolo più forte, va realizzata un’azione più incisiva soprattutto da parte delle istituzioni culturali: queste devono capire quale può essere il proprio ruolo, come possono dare del valore aggiunto alle imprese e non solo pretendere un sostegno di tipo mecenatistico. Le istituzioni culturali devono fare una autoriflessione, capire come il loro ruolo sul territorio possa contribuire anche allo sviluppo delle aziende.
S.S.M.Le fondazioni bancarie sono forse l’unico soggetto privato a potersi permettere di investire a tutto tondo (in arte contemporanea, restauro, riqualificazione, teatro e danza). Come valuta la loro posizione nel nostro settore? F.B. La fondazione bancaria è un’istituzione privata molto particolare, è un soggetto che, tra le altre cose, legittimamente investe in cultura e rappresenta bene la società e il territorio, pertanto ha un ruolo ormai imprescindibile nel nostro sistema. Si tratta di organizzazioni complesse di grandi dimensioni, credo ci siano pochi paesi dove sono presenti istituzioni di tali caratteristiche e capacità di impatto sul territorio. In Italia dobbiamo essere contenti del fatto che si siano le fondazioni bancarie.
S.S.M. Gli investimenti in cultura paiono essere il trend del momento anche per le amministrazioni pubbliche. Queste sovente operano interventi mirati ed efficaci, ma non è sempre così. Quali sono i limiti di tali approcci? Mi riferisco in particolar modo alle azioni di governance volte alla riqualificazione urbana o all’organizzazione di grandi eventi che spesso incontrano i limiti tipici delle azioni “top down”. Negli ultimi quindici anni, numerose sono state le cattedrali nel deserto sorte qua e là (o in procinto di sorgere). Il modello Bilbao ha dimostrato di avere forti limiti se esportato senza criterio. Qual è il suo parere in merito? F.B. Per dar vita a un intervento efficace non basta un’iniziativa isolata, deve essere creato un tessuto di iniziative. L’iniziativa isolata può essere il primo stimolo, se visibile tanto meglio, ma affinché l’iniziativa abbia successo bisogna che poi si sia capaci di attivare sul territorio un ecosistema di iniziative, di progetti, di persone, di cultura… che mette in moto risorse più ampie e una pluralità di persone. Le pubbliche amministrazioni devono imparare ad agire sul territorio in modo continuativo, omogeneo, offrendo risposte ai bisogni sociali e divenendo un punto di riferimento stabile. Gli interventi culturali di breve durata e svincolati da un progetto organico, non caratterizzano una realtà, né permettono ai cittadini di riconoscersi in un territorio. La cultura fa parte dell’educazione civica di un luogo, ne crea l’identità e pertanto deve avere caratteristiche solide.
S.S.M. A tal proposito, mi permetta di entrare nel dettaglio e di focalizzare nuovamente l’attenzione sul museo di cui lei è presidente. Quali sono stati i fattori che hanno evitato che la costruzione di Botta fosse una semplice infrastruttura? F.B. Nonostante la sede del Mart di Rovereto sia di costruzione recente, esisteva già la sede di Trento, quindi la relazione con la popolazione precede l’edificazione del nuovo museo. Le diverse competenze intellettuali coinvolte conoscevano già la realtà trentina e hanno saputo dialogare con essa. Inoltre il Mart possiede una collezione permanente sorprendente dal punto di vista sia qualitativo, sia quantitativo; caratteristica che ha permesso al museo di diventare un’istituzione di richiamo. Ma soprattutto è stato fondamentale lo sforzo che hanno dedicato tutti quelli che per il Mart hanno lavorato: Gabriella Belli e i suoi collaboratori hanno realizzato un progetto che era indubbiamente un progetto ambizioso e anche rischioso; con passione e volontà hanno concretizzato un’iniziativa che oggi è riconoscibile a livello italiano e internazionale. Qualsiasi cosa funziona, se si lavora tanto.
S.S.M. Eppure, quando il Mart è stato progettato la reazione del territorio è stata tutt’altro che favorevole: polemiche circa la sostenibilità e l’impatto ambientale, dubbi sul risultato di lungo periodo, scarso sostegno degli operatori turistici che invece per primi avrebbero dovuto trarre beneficio dal progetto. Ora, a distanza di cinque anni dall’apertura del museo, la relazione con il territorio si è radicalmente modificata. Che tipo di pubblico accoglie oggi il Mart? Avete raggiunto segmenti diversi? F.B. Il lavoro della sezione didattica è stato mirato e ampio, allo scopo di non attrarre solo visitatori foresti, ma di coinvolgere le comunità locali. Numerosi sono i laboratori attivati con i ragazzi delle scuole e per la collettività. In questi primi cinque anni il museo ha organizzato un centinaio di mostre, dedicate a diversi temi e a diversi pubblici, ma tutte caratterizzate da un’elevata qualità. La proposta artistica si è sviluppata attraverso l’organizzazione di grandi eventi ma anche di mostre minori. In particolare, ciò che accomuna le esposizioni del Mart è che sono caratterizzate da un’indagine pluridisciplinare che analizza i legami tra i diversi linguaggi artistici e le sensibilità dell’animo umano. Chi viene al Mart non è semplicemente amante dell’arte contemporanea, è attento ai dialoghi tra le diverse forme d’arte, ai confini, alle commistioni, alla storia dell’arte e ai contesti politici e sociali che l’arte reinterpreta. Inoltre l’archivio storico del novecento e la collezione permanente attraggono anche un pubblico di nicchia: quello dei ricercatori e degli esperti che qui possono condurre i propri studi.
S.S.M. Il suo mandato al Mart le consente di operare in un territorio dalle caratteristiche uniche. Un più alto benessere diffuso, emergenze sociali limitate, istituzioni che fanno sistema… sono davvero questi i punti forza del Trentino-Alto Adige? F.B. Il Trentino-Alto Adige è tradizionalmente una regione in grado di attrarre i turisti e di accoglierli nel migliore dei modi. Oggi però c’è anche la volontà di rivolgersi a nuovi segmenti di pubblico: a un turista colto, attento non solo ai luoghi ma anche agli spazi. Dal punto di vista della cultura, l’offerta si è enormemente ampliata grazie alla presenza sul territorio di istituzioni museali come il Mart e Museion, di gallerie importanti, di università… Insomma c’è un fermento promosso anche dagli enti locali che attrae risorse e attenzioni. Lo dimostra la scelta della Biennale Manifesta 7 che quest’anno avrà sede proprio in Trentino-Alto Adige. È la prova di quanto detto prima: un’ecologia di iniziative virtuose è in grado di generare un sistema vivace e vincente.
Franco Bernabè dal 2004 è presidente del Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto e tra il 2001 e il 2003 è stato presidente della Biennale di Venezia. Bernabè, però, non nasce manager culturale: ha ricoperto prestigiosi incarichi in grandi aziende italiane (Eni, Fiat, Telecom) e presso istituti internazionali (Ocse, Peres Centre for Peace), inoltre alla fine degli anni novanta è stato rappresentante speciale del Governo per la ricostruzione del Kossovo. Oggi è nuovamente alla testa del gruppo Telecom Italia, in veste di amministratore delegato e si occupa contemporaneamente di ITC, nuove tecnologie, energie rinnovabili…
Susanna Sara Mandice: Tradizionalmente, in Italia i vertici del settore culturale sono destinati a uomini e donne di provenienza accademica che indubbiamente svolgono un ottimo lavoro, ma che non sono il frutto di un’esperienza manageriale. Al contrario, il Mart può fregiarsi delle sue competenze alla presidenza e di quelle di Gabriella Belli, critica e storica dell’arte, alla direzione. Quali sono le caratteristiche che rendono un manager d’azienda come lei adatto alla gestione di eventi o istituzioni culturali? Qual è il punto di incontro tra due mondi apparentemente tanto distanti? Franco Bernabè: La collaborazione tra questi due mondi funziona quando c’è complementarietà, quando i diversi soggetti apportano competenze che non possono che integrarsi e creare una sinergia. Gabriella Belli non è solamente una persona che si occupa di storia dell’arte, ha anche una grande capacità organizzativa. Il Mart ha il vantaggio di avere una personalità che possiede una pluralità di competenze oltre che un grandissimo entusiasmo; Gabriella Belli una professionista preparata soprattutto per quanto riguarda il mondo dell’arte ma è anche una persona dalle spiccate capacità organizzative. Per quanto mi riguarda invece, io sono la figura che apporta competenze di tipo manageriale, vale a dire una visione di che cosa debba essere un sistema complesso e di come tale sistema possa funzionare bene, essere armonioso ed efficace nelle realtà che produce. Ecco che le mie mansioni si integrano bene con quella della direttrice. E poi certamente quello che conta e che ci accomuna è l’entusiasmo per il progetto del Mart e per le sue potenzialità di creare in Italia un elemento di stimolo e di traino per il mondo dell’arte contemporanea.
S.S.M. Negli ultimi anni, l’intervento dei privati nel settore culturale si è rivelato necessario: la cultura ha bisogno delle imprese. Si può dire che in qualche modo le imprese abbiano bisogno di investire in cultura? Quali sono le motivazioni che spingono un’azienda a operare in tal senso? F.B. Le ragioni per le quali un’impresa può e deve avere un interesse nei confronti della cultura, e in particolare nei confronti dell’arte, non sono direttamente legate al beneficio d’immagine che se ne può trarre. Normalmente l’efficacia in termini di comunicazione derivante dalle attività di sponsorizzazione è abbastanza ridotta, purtroppo troppo spesso iniziative di questo tipo finiscono per essere operazioni di mecenatismo che non rientrano tra i compiti delle imprese. L’arte e la cultura possono invece essere un decisivo fattore di stimolo e di promozione per una riflessione interna dell’azienda, per indirizzare meglio le energie, per costruire un pensiero parallelo sulle operazioni che l’impresa stessa fa. La creatività è uno stimolo non solo per coloro che hanno la responsabilità della conduzione dell’impresa, ma per tutti quelli che partecipano allo sviluppo della stessa. È un incentivo a ripensare al proprio modo di essere, ai concetti che si sviluppano, al pubblico verso il quale questi concetti sono diretti, e tutto questo va fatto in modo innovativo, anche al limite della provocazione. Ecco: l’impresa è la capacità di innovazione; l’arte è l’innovazione senza mediazione, è la sperimentazione allo stato puro. Questa capacità di innovare dell’arte è qualcosa che per l’impresa è fondamentale. Pertanto contribuire, essere partecipe a un’iniziativa di tipo culturale diviene un incoraggiamento per l’impresa e per la sua crescita che non si riduce a un’attività di puro mecenatismo nei confronti dell’iniziativa scelta.
S.S.M. Nonostante le recenti novità del sistema arte-impresa, talvolta le sinergie tra i settori sono discontinue o di breve periodo. Donazioni sporadiche non denotano un impegno mirato all’investimento in un settore dato. A suo parere i due mondi restano isolati o la situazione italiana sta realmente mutando? F.B. L’Italia ha sempre avuto una grande sensibilità nei confronti dell’arte, essendo un paese nel quale l’arte permea non solo la cultura degli individui, ma anche la geografia del paese. Per un lungo periodo questo rapporto intenso con il mondo dell’arte è stato più un rapporto erudito, di tipo storico. Oggi si sta sviluppando in Italia una nuova emotività nei confronti della contemporaneità, si possono finalmente modificare le relazioni tradizionali. L’arte contemporanea rappresenta una discontinuità forte perché richiede di superare degli schemi che sono soprattutto delle barriere intellettuali, è necessario fare uno sforzo che non è uno sforzo semplice, in particolar modo per chi è ancora legato a una tradizione storico-artistica solida e forte nel campo dell’arte. A mio parere però si stanno via via sviluppando nuovi stimoli per nuove esperienze che si rendono necessarie alla crescita reale del Paese. Mi pare stia prendendo forma una nuova sensibilità che si rivela utile affinché il Paese si apra, si espanda e progredisca non solo culturalmente.
S.S.M. Le recenti scelte del nostro Legislatore paiono voler aprire la strada a collaborazioni arte-impresa. Eppure, rimangono ancora numerose criticità e lacune, soprattutto nel sistema tributario. La giurisprudenza di settore si presenta frammentata e poco organica. Quali crede siano le leggi che favoriscono e quali quelle che limitano tali partecipazioni? Cosa manca al nostro sistema? F.B. Le leggi che possono stimolare tali collaborazioni sono le leggi che riguardano sostanzialmente il trattamento fiscale delle donazioni e delle attività di mecenatismo. Oggi l’amministrazione finanziaria è ancora troppo sospettosa: teme che incentivare l’arte significhi favorire l’elusione o, peggio ancora, l’evasione fiscale. In effetti esistono le possibilità di poter utilizzare a fini non trasparenti gli strumenti che in altri paesi già ci sono. Io credo, però, che vada trovata in prospettiva una modalità che garantisca i risultati previsti dal sistema fiscale, ma che allo stesso tempo incentivi la destinazione di patrimoni alle istituzioni museali e il sostegno economico alle attività artistiche, anziché limitarlo. Tutto questo, ovviamente, con la massima trasparenza e il massimo rigore; certamente c’è la possibilità di combinare le diverse priorità ed è questa la direzione che va perseguita.
S.S.M. Notoriamente sono le grandi aziende a essere coinvolte nei progetti culturali e i grandi eventi e le mostre blockbuster attirano gran parte dei finanziamenti. Come avvicinare le P.M.I. (piccole e medie imprese) che a scapito di una capacità d’investimento minore, possono però contare su un legame forte con i territori di riferimento e con i rispettivi stakeholder? F.B. Se guardiamo all’esperienza del Mart, è chiaro che aziende quali la cantina Lavis e altre piccole e medie imprese hanno capito l’importanza del museo per il territorio e lo sostengono attivamente. Credo che stia alle istituzioni culturali dimostrare la capacità di presenza sul territorio e di attivazione d’interesse da parte della popolazione, quindi porsi anche come un riferimento attivo per le imprese. Bisogna che chi fa cultura sappia diventare un riferimento attivo per le imprese che guardano a questo come a uno strumento per essere più visibili. Probabilmente dove l’iniziativa culturale è più a contatto con il territorio l’obiettivo appare più semplice da raggiungere, prendiamo ancora come esempio il caso del Mart che si trova in una città piccola: le manifestazioni che vengono realizzate sono molto più visibili, la dimensione territoriale, quindi la diffusione delle iniziative sul territorio, si presta maggiormente a un sostegno da parte delle imprese locali. Certamente in un’ottica di stimolo più forte, va realizzata un’azione più incisiva soprattutto da parte delle istituzioni culturali: queste devono capire quale può essere il proprio ruolo, come possono dare del valore aggiunto alle imprese e non solo pretendere un sostegno di tipo mecenatistico. Le istituzioni culturali devono fare una autoriflessione, capire come il loro ruolo sul territorio possa contribuire anche allo sviluppo delle aziende.
S.S.M.Le fondazioni bancarie sono forse l’unico soggetto privato a potersi permettere di investire a tutto tondo (in arte contemporanea, restauro, riqualificazione, teatro e danza). Come valuta la loro posizione nel nostro settore? F.B. La fondazione bancaria è un’istituzione privata molto particolare, è un soggetto che, tra le altre cose, legittimamente investe in cultura e rappresenta bene la società e il territorio, pertanto ha un ruolo ormai imprescindibile nel nostro sistema. Si tratta di organizzazioni complesse di grandi dimensioni, credo ci siano pochi paesi dove sono presenti istituzioni di tali caratteristiche e capacità di impatto sul territorio. In Italia dobbiamo essere contenti del fatto che si siano le fondazioni bancarie.
S.S.M. Gli investimenti in cultura paiono essere il trend del momento anche per le amministrazioni pubbliche. Queste sovente operano interventi mirati ed efficaci, ma non è sempre così. Quali sono i limiti di tali approcci? Mi riferisco in particolar modo alle azioni di governance volte alla riqualificazione urbana o all’organizzazione di grandi eventi che spesso incontrano i limiti tipici delle azioni “top down”. Negli ultimi quindici anni, numerose sono state le cattedrali nel deserto sorte qua e là (o in procinto di sorgere). Il modello Bilbao ha dimostrato di avere forti limiti se esportato senza criterio. Qual è il suo parere in merito? F.B. Per dar vita a un intervento efficace non basta un’iniziativa isolata, deve essere creato un tessuto di iniziative. L’iniziativa isolata può essere il primo stimolo, se visibile tanto meglio, ma affinché l’iniziativa abbia successo bisogna che poi si sia capaci di attivare sul territorio un ecosistema di iniziative, di progetti, di persone, di cultura… che mette in moto risorse più ampie e una pluralità di persone. Le pubbliche amministrazioni devono imparare ad agire sul territorio in modo continuativo, omogeneo, offrendo risposte ai bisogni sociali e divenendo un punto di riferimento stabile. Gli interventi culturali di breve durata e svincolati da un progetto organico, non caratterizzano una realtà, né permettono ai cittadini di riconoscersi in un territorio. La cultura fa parte dell’educazione civica di un luogo, ne crea l’identità e pertanto deve avere caratteristiche solide.
S.S.M. A tal proposito, mi permetta di entrare nel dettaglio e di focalizzare nuovamente l’attenzione sul museo di cui lei è presidente. Quali sono stati i fattori che hanno evitato che la costruzione di Botta fosse una semplice infrastruttura? F.B. Nonostante la sede del Mart di Rovereto sia di costruzione recente, esisteva già la sede di Trento, quindi la relazione con la popolazione precede l’edificazione del nuovo museo. Le diverse competenze intellettuali coinvolte conoscevano già la realtà trentina e hanno saputo dialogare con essa. Inoltre il Mart possiede una collezione permanente sorprendente dal punto di vista sia qualitativo, sia quantitativo; caratteristica che ha permesso al museo di diventare un’istituzione di richiamo. Ma soprattutto è stato fondamentale lo sforzo che hanno dedicato tutti quelli che per il Mart hanno lavorato: Gabriella Belli e i suoi collaboratori hanno realizzato un progetto che era indubbiamente un progetto ambizioso e anche rischioso; con passione e volontà hanno concretizzato un’iniziativa che oggi è riconoscibile a livello italiano e internazionale. Qualsiasi cosa funziona, se si lavora tanto.
S.S.M. Eppure, quando il Mart è stato progettato la reazione del territorio è stata tutt’altro che favorevole: polemiche circa la sostenibilità e l’impatto ambientale, dubbi sul risultato di lungo periodo, scarso sostegno degli operatori turistici che invece per primi avrebbero dovuto trarre beneficio dal progetto. Ora, a distanza di cinque anni dall’apertura del museo, la relazione con il territorio si è radicalmente modificata. Che tipo di pubblico accoglie oggi il Mart? Avete raggiunto segmenti diversi? F.B. Il lavoro della sezione didattica è stato mirato e ampio, allo scopo di non attrarre solo visitatori foresti, ma di coinvolgere le comunità locali. Numerosi sono i laboratori attivati con i ragazzi delle scuole e per la collettività. In questi primi cinque anni il museo ha organizzato un centinaio di mostre, dedicate a diversi temi e a diversi pubblici, ma tutte caratterizzate da un’elevata qualità. La proposta artistica si è sviluppata attraverso l’organizzazione di grandi eventi ma anche di mostre minori. In particolare, ciò che accomuna le esposizioni del Mart è che sono caratterizzate da un’indagine pluridisciplinare che analizza i legami tra i diversi linguaggi artistici e le sensibilità dell’animo umano. Chi viene al Mart non è semplicemente amante dell’arte contemporanea, è attento ai dialoghi tra le diverse forme d’arte, ai confini, alle commistioni, alla storia dell’arte e ai contesti politici e sociali che l’arte reinterpreta. Inoltre l’archivio storico del novecento e la collezione permanente attraggono anche un pubblico di nicchia: quello dei ricercatori e degli esperti che qui possono condurre i propri studi.
S.S.M. Il suo mandato al Mart le consente di operare in un territorio dalle caratteristiche uniche. Un più alto benessere diffuso, emergenze sociali limitate, istituzioni che fanno sistema… sono davvero questi i punti forza del Trentino-Alto Adige? F.B. Il Trentino-Alto Adige è tradizionalmente una regione in grado di attrarre i turisti e di accoglierli nel migliore dei modi. Oggi però c’è anche la volontà di rivolgersi a nuovi segmenti di pubblico: a un turista colto, attento non solo ai luoghi ma anche agli spazi. Dal punto di vista della cultura, l’offerta si è enormemente ampliata grazie alla presenza sul territorio di istituzioni museali come il Mart e Museion, di gallerie importanti, di università… Insomma c’è un fermento promosso anche dagli enti locali che attrae risorse e attenzioni. Lo dimostra la scelta della Biennale Manifesta 7 che quest’anno avrà sede proprio in Trentino-Alto Adige. È la prova di quanto detto prima: un’ecologia di iniziative virtuose è in grado di generare un sistema vivace e vincente.
Michael Beutler, Francosoffiantino Artecontemporanea, Torino
Interviene quasi architettonicamente nello spazio della galleria Franco Soffiantino Michael Beutler (Oldenburg, 1973). Invitato per la seconda personale nello spazio torinese, Beutler ha carta bianca, e da buon visionario qual è, non può chiedere di meglio. Tra gallerista e artista si instaura un rapporto di confidenza, di conoscenza reciproca e amore per il luogo che porta l’artista a reinterpretare il vuoto della galleria disallestita.
Due piani: due installazioni, chiamate “Sopra” e “Sotto”, con una semplicità che non è banalità, bensì extra-ordinarietà. Talvolta la rivoluzione è chiamare le cose con il proprio nome, aderire a posizioni ovvie, albergare il quotidiano e riscoprirne gli angoli perduti: questo è il lavoro di Beutler. Al primo piano è una struttura metallica che ricorda i ferri rugginosi tanto cari a Giuseppe Uncini. Come lo scheletro di un maestoso animale preistorico, la struttura ricalca il volume dell’ambiente - suddiviso in vani - seguendone le curve, elevandosi verso il soffitto, sottolineandone gli spigoli. Chi frequenta la galleria è quasi sconcertato: l’installazione site-specific stravolge il luogo, ma contemporaneamente ne accentua l’identità, permettendo l’osservazione dettagliata e una nuova scoperta degli spazi che tante volte abbiamo visitato. La sintonia è magica; dopo una prima leggera diffidenza, la curiosità e la famigliarità con la galleria permettono di prendere coraggio e di entrare nell’opera, abbassandosi qui, attraversando là. Anche le vetrine che danno sulla via paiono diverse se viste dall’interno dell’installazione: si può vedere un tram che passa e il disegno del reticolato dei cavi elettrici che lo sovrastano è simile a quello del lavoro di Beutler; e i binari sottostanti paiono costituiti dello stesso materiale. L’arte supera i limiti spaziali delle portefinestre e si armonizza con l’ambiente.
La struttura, morfologicamente aderente allo spazio, consta in realtà di moduli assemblati che permetteranno all’artista di trasporre l’esperimento altrove, allestendo “Sopra” in altri spazi architettonici. Un nuovo pensiero si insinua e ci parla dell’instabilità di ciò che riteniamo dato, sussurra di mutabilità di architetture e strutture (mentali?), racconta di nuovi punti di vista. Il lavoro di Beutler, che predilige le grandi installazioni, è caratterizzato (qui come nel passato) da un interesse formale e da una ricerca installativa quasi maniacale: a lungo esamina lo spazio nel quale dovrà operare, con una particolare attenzione ai dettagli, a quelle che paiono minuzie, alle imperfezioni.
Lavoro dialettico di reinterpretazione spaziale, mira all’instabilità, genera crisi, decostruisce e allo stesso tempo ricostruisce. Costringe il visitatore a dialogare con l’opera e con lo spazio, proponendo punti di vista inediti, proiezioni prima d’ora ignorate, ma non per questo inesistenti. I punti fermi scompaiono, le certezze si fluidificano e suggeriscono ipotesi di instabilità.
“Sopra” è tanto formale quanto “sotto” è sostanziale. I due contrari, complementari, presenziano in maniera differente nei due livelli della galleria. Così come “Sopra” è spazio aperto, “Sotto” è claustrofobia; “Sopra” è monocromo asettico, “Sotto” è un tripudio di colori e calore, “Sopra” è geometria essenziale, “Sotto” è caos. Anche “Sotto” interviene sulle specifiche architetturiali della galleria; struttura in bambù e carta colorata, è un percorso labirintico che richiama le forme degli spazi-gioco per bambini nei grandi centri commerciali. Un forte odore di carta patinata accompagna il percorso. Quasi concentrica, la struttura si chiude su se stessa e, alla fine del tragitto troviamo un tavolo da lavoro, attrezzi dell’artista, rotoli di carta appoggiati alle pareti… quasi un work in progress, oppure un lavoro sospeso che diventa un invito a farci creatori a nostra volta, a immaginare di riallestire lo spazio, di riallestire tutti gli spazi, di dar vita a opere che siano la fase finale di un processo di analisi e conoscenza dei luoghi.
Due piani: due installazioni, chiamate “Sopra” e “Sotto”, con una semplicità che non è banalità, bensì extra-ordinarietà. Talvolta la rivoluzione è chiamare le cose con il proprio nome, aderire a posizioni ovvie, albergare il quotidiano e riscoprirne gli angoli perduti: questo è il lavoro di Beutler. Al primo piano è una struttura metallica che ricorda i ferri rugginosi tanto cari a Giuseppe Uncini. Come lo scheletro di un maestoso animale preistorico, la struttura ricalca il volume dell’ambiente - suddiviso in vani - seguendone le curve, elevandosi verso il soffitto, sottolineandone gli spigoli. Chi frequenta la galleria è quasi sconcertato: l’installazione site-specific stravolge il luogo, ma contemporaneamente ne accentua l’identità, permettendo l’osservazione dettagliata e una nuova scoperta degli spazi che tante volte abbiamo visitato. La sintonia è magica; dopo una prima leggera diffidenza, la curiosità e la famigliarità con la galleria permettono di prendere coraggio e di entrare nell’opera, abbassandosi qui, attraversando là. Anche le vetrine che danno sulla via paiono diverse se viste dall’interno dell’installazione: si può vedere un tram che passa e il disegno del reticolato dei cavi elettrici che lo sovrastano è simile a quello del lavoro di Beutler; e i binari sottostanti paiono costituiti dello stesso materiale. L’arte supera i limiti spaziali delle portefinestre e si armonizza con l’ambiente.
La struttura, morfologicamente aderente allo spazio, consta in realtà di moduli assemblati che permetteranno all’artista di trasporre l’esperimento altrove, allestendo “Sopra” in altri spazi architettonici. Un nuovo pensiero si insinua e ci parla dell’instabilità di ciò che riteniamo dato, sussurra di mutabilità di architetture e strutture (mentali?), racconta di nuovi punti di vista. Il lavoro di Beutler, che predilige le grandi installazioni, è caratterizzato (qui come nel passato) da un interesse formale e da una ricerca installativa quasi maniacale: a lungo esamina lo spazio nel quale dovrà operare, con una particolare attenzione ai dettagli, a quelle che paiono minuzie, alle imperfezioni.
Lavoro dialettico di reinterpretazione spaziale, mira all’instabilità, genera crisi, decostruisce e allo stesso tempo ricostruisce. Costringe il visitatore a dialogare con l’opera e con lo spazio, proponendo punti di vista inediti, proiezioni prima d’ora ignorate, ma non per questo inesistenti. I punti fermi scompaiono, le certezze si fluidificano e suggeriscono ipotesi di instabilità.
“Sopra” è tanto formale quanto “sotto” è sostanziale. I due contrari, complementari, presenziano in maniera differente nei due livelli della galleria. Così come “Sopra” è spazio aperto, “Sotto” è claustrofobia; “Sopra” è monocromo asettico, “Sotto” è un tripudio di colori e calore, “Sopra” è geometria essenziale, “Sotto” è caos. Anche “Sotto” interviene sulle specifiche architetturiali della galleria; struttura in bambù e carta colorata, è un percorso labirintico che richiama le forme degli spazi-gioco per bambini nei grandi centri commerciali. Un forte odore di carta patinata accompagna il percorso. Quasi concentrica, la struttura si chiude su se stessa e, alla fine del tragitto troviamo un tavolo da lavoro, attrezzi dell’artista, rotoli di carta appoggiati alle pareti… quasi un work in progress, oppure un lavoro sospeso che diventa un invito a farci creatori a nostra volta, a immaginare di riallestire lo spazio, di riallestire tutti gli spazi, di dar vita a opere che siano la fase finale di un processo di analisi e conoscenza dei luoghi.
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