(articolo pubblicato su Artkey n°7 - novembre/dicembre 2008)
Dottor Imperatori, in un momento di riconosciuta crisi economica e di sfiducia collettiva, vorrei provare a fare con il suo aiuto un percorso che ci aiuti a comprendere qual è la direzione da intraprendere per evitare il rischio di involuzione di settore. Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, all’art. 6 comma 1 - non a caso inserito tra i principi fondamentali - recita: “La valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso”.
Susanna Sara Mandice: In Italia la valorizzazione viene spesso misurata attraverso rigidi schemi numerici, gli standard museali (laddove utilizzati) si basano più sul numero dei biglietti staccati che sulla reale produzione di conoscenza. Quali sono i parametri per valutare un’attività culturale dal punto di vista qualitativo? Le faccio un esempio: la Cappella degli Scrovegni propone, a corollario di una visita breve, un nutrito percorso didattico di preparazione alla visita stessa, ma non se ne sente mai parlare. La Galleria degli Uffizi è probabilmente il museo italiano a detenere il record di visite e se ne parla sempre. In cosa si differenzia una visita agli Uffizi da una alla Cappella degli Scrovegni?
Gianfranco Imperatori: Nell’ultimo secolo i musei hanno conosciuto una crescita esponenziale del numero di visitatori. Le basti pensare che gli Uffizi che lei cita sono passati, dal 1937 ad oggi, da 50mila visitatori a più di 1milione e mezzo l’anno (dato del 2007). Il Presidente del Comitato Scientifico dell’Associazione Civita, di cui sono Segretario Generale, sostiene spesso, e sono d’accordo con lui, che difficilmente il numero di persone che escono dalla visita museale arricchiti culturalmente sia aumentato con l’aumentare degli ingressi. Questo non dipende dalla capacità didattica del museo (se così fosse, dovrebbe essere il contrario di quanto sosteniamo, dal momento che l’attenzione alla didattica da parte dei musei è cresciuta con la crescita dei servizi al pubblico offerti al loro interno); dipende piuttosto da un modo di intendere la visita museale, oggi spesso associata a un turismo dei grandi numeri, a un momento di svago, di evasione che poco ha a che fare con l’accrescimento delle conoscenze. Da questo punto di vista, non credo che la visita agli Uffizi sia tanto diversa da quella alla Cappella degli Scrovegni: la differenza, oggi come nel passato, la fa la motivazione che spinge il visitatore, che, agli Scrovegni come agli Uffizi, se mosso da amore per la conoscenza, oggi più di ieri trova nei musei gli strumenti adatti, ulteriori agli oggetti esposti, per soddisfarlo.
S.S.M. Nel suo ultimo editoriale su “Il Giornale di Civita” ha toccato il tema del turismo culturale. Premesso che la cultura non è turismo, ma che il turismo può essere cultura, quali sono i limiti che un turismo di massa può portare al sistema culturale? Visitare una mostra sovraffollata, dedicarsi a visite spot rappresenta davvero un’esperienza formativa? Dovendo evitare che i musei di forte richiamo e le mostre blockbuster, sulle quali tanto si punta, abbassino il livello della ricerca rendendo dozzinale la produzione nazionale di cultura, su cosa puntare? Come si può massimizzare la fruizione? Basta esporre per “produrre cultura”? G.I. La cultura è una forte motivazione turistica: lo dimostrano i dati che, in un momento di recesso nella movimentazione dei flussi verso il nostro Paese, rivelano ancora piuttosto stabili le destinazioni delle città d’arte. Da tempo sosteniamo che il Governo dovrebbe intervenire nel coordinare politiche turistiche e politiche culturali, in modo da non disperdere le grandi opportunità che ci vengono dall’appeal e dalla ampia e omogenea diffusione del nostro patrimonio culturale in termini di richiamo turistico, considerando che il settore turistico rappresenta, nel suo complesso, il 14% circa del nostro PIL; senza incidere ulteriormente su quelle mete già tanto interessate dai flussi turistici e che, con l’andare del tempo, rischiano di perdere la propria fisionomia, ma creando un vero e proprio sistema dell’offerta che distribuisca il turista su tutto il territorio italiano. I problemi da porsi sono, quindi, di due ordini: strutturale e metodologico. Da una parte bisogna intervenire sulle infrastrutture del territorio nazionale per rendere agevole e piacevole per il turista spostarsi nel nostro Paese e raggiungere e soggiornare in località meno conosciute. Dal canto nostro, abbiamo realizzato, insieme con ANCE e ARCUS, il progetto “Alberghi della Cultura”, che presenteremo a breve, e che intende coniugare il recupero di edifici storici con finalità ricettiva e promozione del territorio in chiave culturale. Dall’altra, è importante riflettere sulle politiche degli eventi culturali, perché perdano il carattere, acquisito soprattutto negli ultimi anni, del grande effetto dai forti costi e dagli impatti positivi effimeri; ma, piuttosto, possano diventare volani di arricchimento culturale e di ricchezza per l’intero territorio, impostandosi su progetti a lungo termine e ritrovando il valore dei contenuti e lo stretto legame con la cultura locale. Lo stesso vale per le mostre, che, a nostro avviso, devono avere un costante richiamo alla tradizione culturale del territorio circostante, e valorizzare, dove possibile, le collezioni dei musei che le ospitano, in modo da avvicinare, e chissà, magari fidelizzare, il visitatore a quel territorio e a quel museo.
S.S.M. Civita è tra i grandi protagonisti della gestione servizi integrati, ma allo stesso tempo è associazione non profit. Perché questo sdoppiamento? Quali obiettivi si possono raggiungere in maniera più agile attraverso questa duplice natura? G.I. Civita nasce come associazione non-profit (Associazione Civita), come laboratorio di idee e progetti. Dall’entrata in vigore della legge Ronchey abbiamo cominciato a sperimentare la fornitura di servizi al pubblico nei musei. L’avvio di attività commerciali ha richiesto di necessità la nascita di una società, Civita Servizi, che oggi gestisce i servizi in circa 50 musei e siti archeologici nazionali. Abbiamo infatti verificato che la complementarietà delle attività aggiunge concretezza alla produzione di ricerche e di riflessioni dell’Associazione, e attribuisce carattere innovativo alle iniziative di Civita Servizi.
S.S.M. Recentemente, in vista delle prossime gare per l’assegnazione dei servizi aggiuntivi, si è riparlato del ruolo dei privati nel sistema culturale italiano. A suo parere quali sono i servizi che possono essere concessi in appalto e quali invece devono afferire alla competenza pubblica? O piuttosto ritiene che le competenze non debbano essere suddivise in base alla natura giuridica dell’ente? G.I. In base alla nostra esperienza, il privato può dare un importante supporto al
la gestione dei servizi museali, creando le condizioni per la crescita del numero di visitatori e per la fidelizzazione di molti di loro. Se siamo convinti che il ruolo dei concessionari possa essere utile rispetto non solo alle attività commerciali (biglietteria, libreria, caffetteria), ma anche all’individuazione e alla progettazione di attività promozionali (mostre, concerti, rassegne, ecc., cui oggi collabora solo per le fasi organizzative), siamo anche fermamente convinti che la proprietà delle istituzioni culturali e le attività di tutela debbano rimanere in mano al settore pubblico.
S.S.M. Nel sistema culturale italiano il ruolo dei privati è quello di “salvadanaio” al quale rivolgersi per ottenere nuove risorse. L’azione degli investitori, in particolar modo dei maggiori, pare non volersi più limitare ai meri scopi filantropici o al solo ritorno reputazionale. Da più parti si lancia l’allarme di una presunta caduta dell’indipendenza culturale a favore dei gusti di fondazioni e sponsor. Si teme anche che i privati vogliano investire solo laddove sia possibile massimizzare i profitti, condizione più unica che rara nel mondo delle istituzioni culturali. Qual è il suo parere in merito? I privati possono “fare” cultura e svolgere un ruolo di formazione sociale, affiancandosi ai soggetti pubblici? G.I. Noi siamo l’esempio di un rapporto virtuoso tra privati e cultura e tra soggetti privati e istituzioni pubbliche. Al di là della nostra attività che ci vede partner delle istituzioni pubbliche in veste di concessionari, l’Associazione è costituita da più di 170 imprese che, a vario titolo, dimostrano il proprio interesse nella cultura e nel nostro patrimonio culturale, considerato come punto di partenza per la creazione di un nuovo modello di sviluppo del Paese. Molte di queste aziende, che hanno cominciato a collaborare con le nostre attività semplicemente in veste di sponsor, oggi sono direttamente ideatrici e organizzatrici di eventi e manifestazioni culturali. Certo, i privati hanno individuato nella cultura un volano per la comunicazione della loro immagine, ma non mi pare che questo abbia mai messo in discussione la proprietà del patrimonio. Anzi, sempre più spesso aziende come Enel, Telecom Italia, ultimamente Terna e molte altre, tra cui vanno ricordate anche le fondazioni bancarie, hanno dimostrato di essere in grado di fare cultura, spesso promuovendo nuove creazioni artistiche e intervenendo al fianco delle Pubbliche Amministrazioni.
S.S.M. Diverse voci si sono sollevate a favore di una defiscalizzazione dei contributi a sostegno delle attività culturali. Ciò nonostante questa proposta resta ignorata. Come mai? Qual è il motivo che spinge la politica a tagliare i finanziamenti pubblici e, allo stesso tempo, a non agevolare le partecipazioni dei privati? G.I. In realtà esiste già una legge che prevede la detrazione totale dalle tasse degli investimenti in cultura dei privati. Spesso se ne è lamentata una certa complessità, e forse più volte la non totale idoneità con le reali necessità dei privati. Questo tema è per un’associazione di imprese come la nostra assolutamente rilevante. Da un lato, infatti, possiamo testimoniare come le aziende mostrino una sensibilità crescente nei confronti del mondo della cultura; dall’altro, siamo consapevoli che, soprattutto in un’epoca di riduzione della spesa pubblica, occorre progettare un sistema di incentivazione assai più efficace e agile. In questo senso, non ci limitiamo a riscontrare l’attuale deficit, ma intendiamo offrire il nostro contributo, in termini di esperienza e conoscenza delle esigenze dei privati, nei confronti dei soggetti istituzionali che saranno chiamati a revisionare il sistema delle incentivazioni. Un primo passo è rappresentato dalla recente collaborazione di Civita con il Comitato per l’economia della cultura del Mibac nello svolgimento di un’indagine sugli incentivi pro-sociali alla donazione privata per l’arte e la cultura.
S.S.M. Preso atto della crisi che interessa l’economia italiana, urge definire le possibili ricette destinate al settore della cultura. Oltre alla già citata defiscalizzazione, vuole suggerirci altre potenziali soluzioni? A suo parere questa crisi è destinata a perdurare o intravede dei segnali di ripresa? G.I. Credo che ci siano due ambiti nei quali la cultura potrebbe intervenire in maniera importante, anche per le ricadute economiche che ne deriverebbero. Uno è quello delle nuove tecnologie che trova applicazione in quasi tutti i settori culturali: dalla comunicazione, alla didattica, dal restauro alla sicurezza, dalla gestione dei servizi fino all’industria cinematografica e turistica. È un settore che aspetta ancora di essere sviluppato e che è ancora piuttosto “vergine”, soprattutto in termini di individuazione di contenuti validi, dal momento che le tecnologie sono ampiamente sviluppate e in costante aggiornamento. C’è poi il settore del turismo culturale che ha già dimostrato di avere un peso significativo rispetto all’intero mercato italiano e che può costituire il vero tratto distintivo e competitivo della destinazione Italia rispetto a tutte le altre. È però urgente, in questo senso, individuare politiche di coordinamento tra il Ministero dei Beni Culturali, il Dipartimento del Turismo e le Regioni. La crisi che stiamo vivendo richiede la realizzazione di nuovi modelli: l’Italia potrà crearne di validi se non vivrà il proprio patrimonio come occasione effimera, ma come vero e proprio investimento a lungo termine.
S.S.M. Francesco Bonami, nel presentare la mostra “Italics” in corso a Palazzo Grassi, ha descritto la società italiana come “un’antica civiltà contemporanea”, segnata dalla “tradizione dei grandi maestri del passato”. Ancora troppo legata agli status quo esistenti, intenta in una quasi immobile autocelebrazione, l’Italia investe nel settore tessile e metalmeccanico anziché su innovazione e ricerca e produce mostre di arte antica, medievale e moderna ignorando quasi completamente l’arte contemporanea. Economicamente siamo un popolo avverso al rischio, eppure i dati per valutare il valore dell’utilità attesa sono disponibili sul mercato. Perché allora il nostro passato diventa un fardello luccicante? G.I. Quello italiano è un popolo che ama i paradossi: nella nostra storia non abbiamo fatto altro che dimostrare di essere ugualmente grandi conservatori e profondi innovatori. Ancora oggi, alcune delle tecnologie più innovative sono pensate e prodotte in Italia e alcuni dei maggiori artisti sulla scena contemporanea internazionale sono italiani. Senza contare il fatto che in molti settori (pensiamo alla moda, al design, all’agroalimentare) continuiamo a fare tendenza. Non credo che in questo il nostro passato non c’entri. Anzi, non vedrei il nostro passato come un fardello luccicante: piuttosto come quel gigante sulle cui spalle noi, piccoli nani del presente, riusciamo a guardare verso il nostro futuro.
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