Allloksame e Antonio Marras: doppia mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

(articolo pubblicato sul portale www.beniculturalionline.it)

Nei poliedrici spazi della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, a Torino, si può scegliere di smarrirsi nel fascino enigmatico delle produzioni contemporanee che ci giungono dal lontano oriente (fino all'11 febbraio) oppure di emozionarsi nella contemplazione delle foto che Ylena Yemchuck ha scattato in Sardegna per rendere omaggio a Antonio Marras (fino al 21 gennaio). Due percorsi distanti, che catturano sfumature del presente, ma che inducono allo stesso tempo a riflessioni sul passato e sul nostro tempo. Una visita piacevole in quella che ormai, da quattro anni, è una delle dimore dell'arte contemporanea a Torino. Allloksame, probabilmente la retrospettiva più eterogenea sull'Oriente di oggi, presenta opere di artisti cinesi, giapponesi e coreani. Interrogarsi sulla diversità, celebrarne i luoghi comuni, stimolare nuovi punti di vista, è possibile nella passeggiata artistica che la Fondazione Sandretto offre ai suoi visitatori. Lodevole la scelta di proporre lavori di artisti per lo più giovani, molte donne, finalmente, che nella maggior parte dei casi risiedono in Oriente (di solito si è abituati ad artisti orientali ormai insediati in Europa o negli States). Eterogenee le forme di indagine proposte: video, fotografie, opere pittoriche, sculture. La realtà orientale e mondiale viene analizzata, sezionata; le criticità emergono e vengono esasperate. Colpisce sicuramente la constatazione di come anche l'arte sia ormai globalizzata, nonostante alcuni simbolismi di matrice prettamente orientale, quasi tutte le opere presentano sensibilità condivisibili, punti di vista sulle contraddizioni del nostro tempo, denunce sociali non solo riferite all'Asia. Purtroppo però l'esposizione appare un pout pourri troppo pasticciato: manca di un filo conduttore concreto. Il tema/concetto della contemporaneità resta troppo elastico e non caratterizzante. Il fruitore rischia di perdersi in un percorso che, ancora una volta, non lo pone al centro dell'esperienza conoscitiva ma dona ampio spazio alle dimensioni e ai numeri.

Estetica pura, invece, nella mostra fotografica sui lavori di Antonio Marras. Superlative le istantanee, nelle quali un rigoroso bianco e nero ben si stempera in una leggerezza di volti e abiti straordinari. Le spiagge del Sassarese, location quasi onirica, volti d'elfo, vesti che possono appartenere a differenti epoche, tutto può rapire! L'esposizione si inserisce all'interno di un progetto più ampio della Fondazione: Fashion Eyes, che pone l'accento sul mondo della moda come specchio rivelatore e indagatore della società odierna. Curata da Maria Luisa Frisa, la proposta riflette sui legami tra la moda e altri linguaggi artistici contemporanei, da un punto di ricerca nuovo, di cui si sentiva l'esigenza.

Piange dunque è vivo. Branciaroli mette in scena Beckett: Finale di partita

(articolo pubblicato sul portale www.beniculturalionline.it)

Nell’anno delle celebrazioni dedicate a Samuel Beckett (1906-1989), Franco Branciaroli propone uno degli indiscussi capolavori del premio nobel: Finale di partita.

Il pubblico che nel 1957 assistette alla prima rappresentazione rimase frastornato e la criticò duramente. Diversamente ieri sera gli applausi sono stati consistenti e lunghissimi, più volte gli attori sono rientrati in scena per un ultimo saluto.
Un testo impegnativo presentato con agile delicatezza, scenografie essenziali e allo stesso tempo dettagliate per ricreare uno scenario post atomico. In una stanza quasi asettica, illuminata da luci psichedeliche, plastificata, completamente innaturale e sghemba, ma non per questo fittizia, i personaggi, ora aguzzini ora vittime, strascicano ostinati un’esistenza illogica.

Tre anni prima di dar luce a Finale di partita, Beckett concluse il suo Testi per nulla con un
lapidario: “Non posso continuare, devo continuare”. Questa impotenza irrazionale, volontà stoica di dare un senso compiuto a una realtà illogica, esplode nelle azioni dei quattro personaggi che comunicano che non esiste nulla da comunicare. Di fronte a una palese disgregazione della propria identità, più urgente si fa il bisogno di dare consistenza a se stessi e al mondo. Beckett inscena una situazione in bilico tra il tragico e il comico, nella quale si muovono personaggi che rifiutano l’uso di un linguaggio razionale consequenziale e che generano un processo autodistruttivo nel quale indispensabile diviene la presenza dell’altro. I diversi interventi, botta e risposta, sono legati tra loro da emozioni, stati d’animo che si alternano in un girotondo sbilenco, grottesco. Azioni e neg-azioni servono semplicemente a rimandare il termine di un’esistenza invalida e invalidante. I quattro, simbolo (e forse ultimi rappresentanti) di un’umanità deforme fisicamente e mentalmente, incapaci di immaginare un futuro, vegetano punzecchiandosi a vicenda, in un mondo nel quale si può morire d’oscurità.

Attori ormai navigati e abilissimi interpretano il testo in maniera leggermente più comica e perciò ancor più grottesca. Branciaroli nella parte di Hamm, cieco paralitico così folle da essere lucido, chirurgico, nelle proprie considerazioni. Unico a conoscere la combinazione della cassaforte nel quale è custodito (forse) il cibo, ricatta gli altri affinché gli prestino attenzioni e cure. In due bidoni di mondezza, su uno strato di sabbia, come lettiera per gatti, conducono le proprie esistenze i genitori di Hamm, esseri umani a tratti teneri e degni di commiserazione. Infine, unico a muoversi, anche se sgraziatamente poiché claudicante, Clov, figliastro di Hamm, che si compiace di potersi spostare in cucina, al di fuori della scena, per poter guardare in pace la luce cambiare sul muro. Minaccia continuamente la fuga e trova la forza per la sua dipartita, solo quando una vana speranza all’orizzonte, un “procreatore in potenza” appare, forse, alla finestra. Ma esisterà davvero? Sarà vivo? Qual è la giusta chiave di lettura, ammesso che ce ne sia una?
Beckett lascia spiragli aperti e Branciaroli non è da meno, sporcando il fazzoletto di Hamm di sangue a foggia di sindone, sudario di chi avrebbe portato il peso dell’umanità.
Infine una chicca: l’Hamm di Branciaroli parla con un umoristico accento francese, onore al bilinguismo beckettiano, che qui rende ancora più tragica la situazione, accentuandone la dolorosa comicità e rendendo il testo più fruibile.

La casa d'argilla. Danzando con la morte

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Al teatro Vittoria di Torino andrà in scena (fino al 7 dicembre) La casa d'argilla, per la regia di Lisa Ferlazzo Natoli. Drammaturgia della stessa regista e delle cinque attrici, un lavoro corale completamente femminile. In scena Monica Angrisani, Valentina Curatoli, Tania Garribba, Alice Palazzi e Paola Tintinelli. Scene e costumi a cura di Fabiana Di Marco, musiche di Gabriele Coen e Andrea Pandolfo.
Di fortissimo impatto scenico, luci e suoni praticamente perfetti, coreografie al confine con la sperimentazione del teatro danza, molto curate e pulite. Notevole l'interpretazione di ogni attrice e del gruppo intero che, nella somma di tutte le parti, trova forza lirica impressionante. È un insieme armonioso che colpisce vista e udito, rapendo lo spettatore, il quale però rimane leggermente spaesato. Pubblico quasi stranito: risulta non semplice sbrogliare la matassa di una narrazione eccessivamente indefinita e non abbastanza coinvolgente. Cinque donne si ritrovano attorno a un massiccio tavolo di legno, nella vecchia casa che le ha viste insieme, in un tempo lontano non precisato. Paiono donne di remoti villaggi, sole, attorno al focolare, ricordano, si interrogano, inquiete e smarrite. Personaggi come anime cupe, anche quando ridono, isteriche.
In principio si valuta l’idea di abbattere l’albero genealogico, ormai carico e troppo pesante di ricordi, di fatica. Tutto si sgretola portando a un disgusto tangibile, fisico, straziante. Il tavolo, principale elemento scenografico, funge da spartiacque; attorno ad esso si ruota, balla, canta, si gioca a carte e si piange, si ricorda... E infine al tavolo si torna.

Diversi i salti spaziali e temporali, accentuati da suoni e giochi luminosi che alternano luci calde a freddi bagliori. Predomina il buio: scuri gli abiti e scuro lo spazio, sullo sfondo la proiezione di un albero, scarno, oltre la finestra.
Ad eccezione di tavolo e sedie, tutto è amorfo, i confini non definiti, lo spazio labile.
Canti, gemiti, sussurri… il suono si fonde e le parole perdono significato, quasi non fosse un testo teatrale. La recitazione è musica, anche quando nessuno canta. Le splendide interpreti, ricamatrici del testo, modulano sapientemente le proprie voci e passano da strazianti lamenti a grottesche risate, imitando rumori, versi, scricchiolii, animali lontani. Spesso diversi toni sovrapposti, simili a un coro a cappella, per un testo che risulta piacevole a livello uditivo ma faticoso da seguire. La presenza della morte, all'origine dell'incontro, genera riflessioni, rievoca dolorosi rimpianti mai sopiti, culla nostalgie e fa emergere verità nascoste, un po' troppo prossime a quelle di una trama da soap-opera.