Collaborazioni internazionali tra Italia e Stati Uniti

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°4 - aprile/maggio 2008)

Accordi Italia - Usa per collaborazioni museali future


Il 28 novembre scorso il ministro della Cultura, Francesco Rutelli, ha incontrato i rappresentanti della cultura e dei musei statunitensi. L’incontro, avvenuto alla American Academy di Roma è stato organizzato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali in collaborazione con l’americano Clark Art Institute. Fortemente voluto da entrambe le parti, il convegno si è inserito perfettamente nel lungo elenco di attività di diplomazia culturale messe in atto dal Ministero negli ultimo anno e mezzo. Il pensiero corre a un anno fa, quando Rutelli e Salvatore Settis addirittura minacciarono un vero e proprio embargo culturale verso il Getty Museum, accusato di aver trafugato e commerciato reperti archeologici.
È stato necessario quasi un anno di trattative per raggiungere un accordo e per riportare in Italia una quarantina di opere d’arte. Ma non solo il Getty ha dovuto restituire il maltolto: una serie di oggetti antichi provenienti dal Metropolitan Museum di New York, dal Museum of Fine Arts di Boston e dal Princeton University of Art Museum hanno lasciato l’America per tornare in patria, essendo stati illecitamente esportati.
Il 30 novembre Rutelli ha comunicato ai giornalisti che “Stiamo entrando in una nuova era, si è chiusa la fase legata alle attività illecite attraverso canali inaccettabili”.
Gli accordi sottoscritti permetteranno ora di proteggere non solo il patrimonio antico, ma ogni forma d’arte. Sono stati definiti i paletti all’interno dei quali muoversi per agevolare i prestiti e gli scambi tra diversi paesi, ponendo particolare attenzione alla tutela e alla conservazione delle opere.
L’organizzazione di tali collaborazioni non è però sempre immediata: gli Americani denunciano la nostra ingerente burocrazia, che poco aiuta a snellire le trattative. Michael Conforti, presidente dell’associazione che riunisce i direttori dei musei d’arte americani (AAMD -Association of Art Museum Directors), nonché presidente del Clark Art Institute, accusa l’Italia di non essere “ben disposta” ai prestiti, diversamente da quanto accade in Francia, Inghilterra e Spagna. A tal scopo il Ministero italiano si è impegnato a creare un ufficio apposito per la negoziazione e la gestione dei prestiti internazionali.
Un'altra critica mossa dagli Americani riguarda la nostra scarsa competenza in materia di conservazione e sicurezza. Negli States è ormai prassi aderire ad una serie di rigidissimi standard a tutela delle opere durante gli spostamenti e negli allestimenti fuori sede. Purtroppo non si può dire che altrettanto avvenga a casa nostra, finalmente però il problema è stato valutato e sono state prese delle misure per risolverlo. A tal riguardo Conforti dopo l’incontro ha annunciato che “durante la conferenza queste ansie hanno trovato risposta in un modo che riteniamo soddisfacente”.
Purtroppo, considerata la situazione politica attuale, non possiamo non temere che gli impegni presi a fine anno restino disattesi o vengano perseguiti con i tempi biblici che troppo spesso caratterizzano la nostra burocrazia.
Ci auguriamo che l’Italia e gli Stati Uniti perseverino in questa direzione diplomatica che non riguarda solo il trasporto e il prestito delle opere d’arte. Al convegno si è infatti discusso di progetti educativi on line, della creazione di una banca dati web condivisa e di iniziative di cooperazione per quanto riguarda il restauro e la conservazione del patrimonio culturale. Addirittura si sono poste le basi per collaborazioni in materia archeologica che permettano di operare insieme durante gli scavi e di condividere poi il patrimonio rinvenuto, attraverso una serie di prestiti a lungo termine.
Una curiosità: dai dati presentati al convegno è emerso che gli Stati Uniti prestano un maggior numero di opere alle istituzioni italiane rispetto a quante queste ultime ne inviino oltre oceano. Ciò è determinato da una certa cultura italiana, gelosa e possessiva; ma non solo. Ultimamente in Italia la passione per alcuni periodi artistici è coincisa con il proliferare di appositi allestimenti, nello specifico c’è stata una vera e propria inflazione di mostre sull’impressionismo, sul post-impressionismo e sull’arte moderna con conseguente richiesta di opere d’arte proveniente dall’estero. Si è trattato di veri e propri blockbuster, spesso organizzati con notevoli carenze didattiche e con scarsa partecipazione dei territori di riferimento. Ancora Consorti sottolinea di aver prestato alcune opere dieci volte nel giro di quindici anni.
È giunta forse l’ora per gli organizzatori di mostre di non sottovalutare le nostre eccellenze e di cominciare a soffermarsi anche su altri periodi storici, altrettanto dignitosi e interessanti, senza aspettare che siano le critiche provenienti dall’estero a suggerircelo.

Corso di Lingua dei Segni al Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli

In tutti gli statuti museali e nei testi legislativi (dal Codice dei Beni e delle Attività Culturali ai regolamenti locali) è prevista e incoraggiata la funzione educativa dell’arte. Ogni istituzione che si occupi d’arte mette in atto differenti modalità per aumentare l’accessibilità ai propri programmi, rivolgendosi a target di pubblico sempre nuovi. Inoltre recenti leggi e piani di lavoro si adoperano per abbattere le barriere che ancora discriminano le persone con disabilità.
In un contesto socio-amministrativo fortunatamente sempre più attento all’inclusione, alla condivisione e dalle vedute ampie e politicamente corrette, ben si inserisce il progetto promosso dal Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli, dal gruppo Unicredit e dall’Istituto dei sordi di Torino. Nello specifico, si tratta di un corso di formazione per operatori culturali di Lingua dei Segni, finalizzato alla formazione di personale educativo che guidi e accompagni il pubblico di non udenti o con deficit uditivi alla scoperta e comprensione dell’arte contemporanea. Si tratta della prima proposta italiana avente come obiettivo quello di garantire alle persone sorde una fruizione completa e attiva. La forza espressiva dell’arte contemporanea non deve restare appannaggio di pochi, anzi: proprio attraverso lo studio e la comprensione dell’arte si può raggiungere una più estesa integrazione personale e sociale.
Il corso, che ha una durata trimestrale, è partito a gennaio e ha avuto una prima sperimentazione pilota a novembre, durante la Fiera Internazionale d’Arte Contemporanea Artissima 14.
Non stupisce che a farsi pioniere della proposta sia il Castello di Rivoli, noto per l’efficacia dei suoi programmi educativi, da sempre completi, stimolanti e all’avanguardia. Ma educare oggi non significa più solo rivolgersi alle scolaresche, alle famiglie e ai fruitori che spontaneamente raggiungono il museo (compito che comunque il Castello di Rivoli svolge egregiamente attraverso laboratori, seminari e progetti all’avanguardia), significa anche credere davvero di poter migliorare la società attraverso la meraviglia e far sì che una fetta sempre più ampia della stessa possa godere dell’arte. Significa uscire dal museo alla ricerca di nuovi fruitori e cercare nuovi metodi comunicativi. Significa mettersi in gioco e provare a insegnare agli altri imparando prima qualcosa, significa essere preparati e competenti, ma anche aperti e umani.
Attraverso l’educazione all’arte si accende l’immaginazione, si rilanciano riflessioni, si stimola il pensiero… è perciò soprattutto filantropico lo scopo di voler raggiungere segmenti di pubblico più vasti e meno fortunati.

Dal 2006 il Castello di Rivoli promuove un progetto di avvicinamento di non-vedenti e ipovedenti all’arte contemporanea e diverse sono le attività dedicate ai disabili. Oggi il corso di lingua dei segni per operatori artistici mira a formare personale che sappia comunicare con i sordi, inoltre si vuole individuare un lessico specifico dell’arte contemporanea che non esiste ancora nella Lingua dei Segni italiana. Questo linguaggio dev’essere arricchito con termini specifici, a tal scopo si punta a realizzare il primo dizionario dell’arte per persone con deficit uditivi.
Il progetto gode del partenariato attivo di Unicredit Group che già da diversi anni promuove l’arte contemporanea e la valorizzazione delle differenze, portando l’arte anche nei luoghi del dolore.
Inoltre fondamentale risulta la collaborazione con l’Istituto dei Sordi di Torino, fondato nei primi anni dell’800 a Torino. Operando su scala nazionale e internazionale l’Istituto si dedica alle persone sorde e alla loro integrazione che deve avvenire in tutte gli ambienti della vita: famiglia, scuola, lavoro e perché no, anche museo.

Urban art a Los Angeles, un progetto curato da Emi Fontana

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°4 - aprile/maggio 2008)

Curatrice, gallerista, promotrice coraggiosa Emi Fontana da quindici anni opera nel settore dell’arte contemporanea italiana e internazionale. Nell’omonimo spazio milanese si sono susseguite mostre che hanno avuto il merito di lanciare giovani e sconosciuti artisti nell’olimpo dell’arte. Da sempre attenta alle nuove tendenze, Emi Fontana è una vera e propria talent scout.
Dal 2005 inoltre ha curato una serie di eventi contemporanei concepiti per dare nuova linfa alle relazioni tra arte e tessuto urbano, il progetto prende il nome di West of Rome e assume ogni volta una forma diversa, a seconda dell’artista e del territorio coinvolti. Dalla natura dinamica e versatile, quest’idea permette all’arte di uscire dal musei per appropriarsi di nuovi territori, in continuo dialogo con la comunità, con la quale si vuole stabilire un rapporto interattivo.
In questi primi anni gli artisti che si sono resi complici e hanno sostenuto il progetto sono stati Olafur Eliasson, Monica Bonvicini, Liliana Moro e Diana Thater in collaborazione con T. Kelly Mason.
All’inizio di questo mese West of Rome è approdata a Los Angeles con l’audace e inedito progetto Women in the City che vede protagoniste le opere di Jenny Holzer, Louise Lawler, Barbara Kruger e Cindy Sherman, accomunate da una profonda riflessione sulle questioni di genere. Los Angeles diviene sfondo per i lavori di queste artiste, indiscusse leader del movimento femminista che serpeggia nell’arte contemporanea. Figlie del post-femminismo degli anni ottanta, rappresentano quella generazione di donne-artiste che si occupa delle teorie di genere e delle identità culturali, portando il dibattito nel sistema artistico internazionale. La donna contemporanea, sembrano gridare le opere di queste artiste, deve imparare a ricostruire se stessa e a esercitare l’autonomia del proprio sguardo critico e della propria creatività.
Il progetto curato da Fontana si sviluppa in oltre cinquanta location urbane e si prefigge di elevare la relazione tra arte e spazio pubblico all’ennesima potenza, in quella che è stata definita un’operazione virale. Impatto energico, linguaggio popolare, dinamiche contemporanee alla scoperta del consumismo e delle realtà quotidiane. Per una volta sono le donne a farsi portatrici del seme, l’obiettivo è penetrare il tessuto sociale e geografico cittadino.
Il titolo stesso del progetto, Women in city, persegue un obiettivo che fu, e tuttora rimane, uno dei capisaldi del movimento femminista: la conquista delle strade. Queste rappresentano il terreno delle manifestazioni e degli scontri ideologici dei decenni passati, ma sono anche spazio urbano collettivo, da contrapporre agli spazi chiusi, siano questi domestici, scolastici, o ecclesiastici, che da sempre hanno limitato la libertà e la crescita delle donne come individui.
L’operazione Women in the city coincide, non a caso, con l’apertura del Broad Contemporary Art Museum, questo significa che converge con il momento di maggior visibilità culturale di L. A. La città diventa vetrina, impossibile non notare le opere, posizionate in luoghi strategici e visibili. Le artiste hanno appositamente scelto gli efficaci metodi comunicativi prediletti dalla divulgazione mediatica: tabelloni pubblicitari, schermi luminosi, adesivi promozionali, ma anche affissioni selvagge e graffiti.
Pedoni e veicoli che si aggirino per la città “degli angeli” non possono restare indifferenti: l’arte contemporanea non aspetta più di essere desiderata e scoperta, ma si affaccia sulle strade in maniera quasi arrogante e si palesa ai passanti. Los Angeles stessa diviene il contenitore: le opere e lo sfondo si relazionano, si fondono e, attraverso il cambiamento che ne deriva, creano un paesaggio urbano prima inesistente. Il risultato non potrebbe esistere se mancasse uno dei due fattori: solo l’interrelazione, questa interrelazione, forgia una nuova sinergia tra arte e territorio.

Per qualsiasi informazione aggiuntiva si rimanda al curatissimo sito, ricco di spiegazioni, immagini e video: http://www.womeninthecity.org/

Biennale Internazionale di Fotografia, Brescia

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°4 - aprile/maggio 2008)

Negli ultimi anni Brescia ha conosciuto una maggiore notorietà dovuta ad una serie di investimenti nel settore culturale, ma troppo spesso forse ci si è limitati a promuovere eventi blockbuster di scarso livello educativo, capaci sì di attirare frotte di visitatori, a discapito però di esperienze permanenti e significative per il fruitore.
Talvolta il limite tra arte e turismo viene varcato in maniera superficiale e le governance cittadine paiono non discernere la differenza qualitativa che c’è tra un evento culturale e un evento quasi esclusivamente mediatico. Inoltre in questi casi è elevato il rischio di dimenticare coloro che vivono il territorio, abitandolo e costruendolo quotidianamente.
Fortunatamente non tutti agiscono allo stesso modo e vi sono alcuni organizzatori di eventi culturali che dichiarano apertamente di preferire essere settoriali piuttosto che diminuire la qualità. È il caso del Festival Internazionale di Fotografia di Brescia, la cui terza edizione prenderà il via il prossimo 12 giugno. Innanzi tutto la biennale è nota per essere un evento diffuso, che coinvolge diverse sedi e istituzioni pubbliche e private, offrendo davvero un ritorno degli investimenti sul territorio. Nonostante si tratti di un festival di respiro internazionale, in grado di coinvolgere un ampio pubblico di turisti, grazie anche ai grandi nomi presenti; l’evento si rivolge in primis ai propri cittadini, proponendosi di aumentare davvero il livello qualitativo della vita municipale.
Anche il tema scelto per quest’edizione punta a privilegiare la qualità, ovviamente delle opere, ma soprattutto intellettuale. In qualche parte del mondo è infatti il titolo scelto, che presuppone di indagare i temi del viaggio e dell’alterità, da sempre considerati affascinanti ma di non semplice trattazione.
Dice Ken Damy, direttore artistico della rassegna: “Dagli esordi della fotografia, circa 160 anni fa ai giorni nostri, con l’invenzione della televisione e di internet, la visione del mondo è cambiata in maniera radicale. Nel bene e nel male.Nel bene perché il viaggio è democraticamente alla portata di quasi tutti, nel male perché molti viaggiano malamente e in maniera distratta. -Dieci giorni otto notti tutto compreso- e un paese vasto come gli Stati Uniti o la Cina diventano una mostra o, peggio ancora, un libro che numerose persone in seguito vedono e che per ignoranza fotografica apprezzano: la curiosità è più forte della qualità”.
Puntare sulla qualità quindi, per un percorso che consenta di interrogarsi sulle identità e sulle diversità, graffiando via la superficialità per addentrardi nelle immagini, oltrepassandone le cornici, fisiche e di senso.
E come indagare questi temi se non partendo dalle radici che hanno condotto il fotografo fino a qui? Una retrospettiva metterà in mostra fotografie di fine ottocento, archeologia fotografica quindi, scattate dai primi fotografi viaggiatori in luoghi e città che ancora oggi risvegliano misteriose curiosità. E a proposito di identità e tradizioni, sarà possibile ammirare la serie completa di fotografie d’epoca “Costumi delle diverse regioni d’Italia”. Le piccole immagini dialogheranno con una presentazione audiovisiva e con ingrandimenti che ne esalteranno i dettagli. Altre immagini d’epoca si potranno vedere in 3D attraverso apparecchiature d’epoca, in un percorso coinvolgente e diverso.
Un'altra retrospettiva sarà dedicata a Venezia, la città più fotografata al mondo, che la biennale decide di omaggiare attraverso immagini datate e fotografie di noti contemporanei, come per esempio Marco Zanta, Jean Janssis, Giovanni Chiaramonte e Maurizio Galimberti.
Ovviamente ampio spazio verrà dato al novecento e agli autori storici. Dal Perù Martin Chambi e un centinaio di scatti, tra cui vintage print. Chambi immortalò la sua società tra gli anni venti e quaranta, sapendo illustrare le tradizioni di un mondo arcaico ma anche la civetteria della società borghese.
Infine ritratti d’autore e fotografi contemporanei. Gabriele Basilico , Simon Norfolk Philippe Chancel e Franco Fontana sono solo alcuni dei nomi di fotografi che esporranno le proprie indagini antropologiche, alla ricerca della reciprocità. In particolare Fontana presenterà una selezione della sua serie Route 66, che si inserisce tra i lavori sul tema del viaggio e si lega alla rassegna dedicata agli Stati Uniti che vedrà esposte opere di Jeff Dunas, Mario Vidor, Wim Wenders.
Insomma il festival si preannuncia come un grande evento, indagini filosofiche, scatti d’autore, fotografia d’epoca e scatti vintage, il tutto dislocato in diverse sedi cittadine. Verranno infatti coinvolti: il museo di Santa Giulia, il piccolo Miglio in castello, la Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, il museo Ken Damy, San Zenone all’arco e lo spazio Clerici per l’arte contemporanea. Inoltre importante sarà la partecipazione di numerose gallerie private e spazi alternativi, tra i quali le gallerie Massimo Minini, Rearteuno, Galleria dell’Incisione e Paci arte.
Così, per i numerosi che verranno da fuori città, ma anche per chi già conosce Brescia, ci sarà la possibilità di passeggiare e scoprire angoli e scorci inaspettati, perché no, da fotografare.

Monografia dal titolo On Vanishing di Hans op de Beek

Nato nel 1969, Hans op de Beek è uno dei più celebri artisti belgi. Noto nel panorama internazionale grazie a dieci anni di incessante attività, ha la capacità di spaziare dai video alla scultura, dalle installazioni alla pittura e alla fotografia, attingendo a un’inesauribile vena creativa dalla singolare eterogeneità e dalla cura quasi ossessiva dei particolari. Nonostante la giovane età, nel 2004 esponeva ad Art Basel e nel 2006 alla Biennale di Shangai.
I temi a lui cari sono da sempre imperniati attorno all’essere umano e alla sua condizione esistenziale nel qui ed ora che l’artista restituisce in chiave malinconica e onirica. Il quesito che Op de Beek si pone continuamente riguarda la nostra identità e i vincoli che della vita contemporanea, che incidono inesorabilmente sulle relazioni interpersonali.
In Italia Op de Beek è rappresentato dalla galleria Continua di San Giminiano dove, dopo una serie di mostre collettive, circa un anno fa tenne la personale dal titolo Extension che indagava il rapporto tra gli esseri umani e le macchine, riflettendo sulla modernità e sugli stili di vita attuali. Ogni aspetto curato nei dettagli: suoni estranianti, luci soffuse, oggetti che si rivelavano appendici dell’uomo e senza il quale oggi non è più permesso vivere.
Attualmente un video di Hans op de Beek è presente nella collettiva allestita a Siena, presso i Magazzini del Sale, dal titolo: Erranti nella videoarte contemporanea.
Per chi vuole seguire l’artista più da vicino e conoscerne la poetica, recentemente sono stati editati due libri, più precisamente un catalogo e una monografia.
Il primo documenta il viaggio nelle varie sedi della mostra Extension e correda le immagini con una breve storia scritta dall’artista stesso. Immagini e racconti, quindi, per indagare ancora il rapporto uomo-macchina, passando dalla manipolazione del corpo all’analisi delle relazioni umane, per interrogarci ancora sulle dipendenze dalla tecnologia di questo nostro tempo.
Dalla collaborazione con il critico lusofono Nicolas de Oliveira e con l’autore Nicola Oxley scaturisce infine l’esauriente monografia dal titolo On Vanishing, che illustra il percorso artistico di Op de Beek. Trecentoventi immagini corredate dal testo critico, pubblicato da Mercatorfonds and Xavier Hufkens, il catalogo è per ora disponibile solo online.
A rendere appetibile la monografia è la pluridiscipinarietà: è infatti stata concepita come un libro artistico-letterario, nel quale, attraverso la presentazione dei lavori dell’artista e il testo corredato si approfondiscono tematiche poste da alcuni grandi della letteratura mondiale novecentesca: Jorge Luis Borges, Italo Calvino, Georges Perec e Alain Robbe-Grillet. Arte, letteratura e critica si fondono, non per offrire delle risposte, ma piuttosto per stimolare nuove questioni e per conferire freschezza ad argomenti sempreverdi ai quali ci piace abbandonarci.

Artcurial varca le frontiere: destinazione Cina!

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°3 - febbraio/marzo 2008)

Momento d’oro per la Cina, vetrina sul mondo economico e non solo. Con una crescita annua del 10% del prodotto interno lordo e con un caos legislativo che permette di produrre in tempi rapidi e poco costosi, attrae sempre maggiori capitali e business men. E in un sistema a rete in continua espansione, anche il mondo dell’arte ha iniziato a interessarsi, affascinato, alla cultura orientale: numerose sono le opere che hanno superato la grande muraglia alla volta di New York, Parigi e dei grandi musei internazionali che ultimamente producono retrospettive su Cina, India, Giappone e Corea. Il mercato è però regolato da scambi bilaterali, pertanto anche le nostre istituzioni superano i confini e viaggiano verso est, d’altronde oggi il trend è “delocalizzare in Oriente”.
E non si tira certo indietro la parigina Artcurial, casa d’aste tra le dieci più importanti al mondo e terza tra le colleghe francesi. Da sempre si distingue per la propria versatilità: non solo vendite, ma anche incontri, conferenze, bookshop, editoria e mostre; tutto ciò che si può correlare al mondo dell’arte da Artcurial c’è. E da settembre non solo più a Parigi ma anche a Shanghai.
Certo la scelta non è casuale: Shanghai è da sempre considerata maggiormente aperta alle novità, rispetto a una Pechino conservatrice, troppo legata ai ruoli amministrativi. Inoltre, guarda caso, Shanghai è anche notevolmente più ricca e di tendenza, la città adatta all’investimento di chi ama essere chic, come ha dimostrato dalla prima edizione di ShContemporary, la fiera di arte contemporanea asiatica, svoltasi lo scorso settembre.
Artcurial segue l’esempio di Cristie’s (che magnifica attraverso la propria presenza Shangahai, Hong Kong e Beijing) e di Sotheby’s (che a sua volta vanta una succursale a Hong Kong).
La sede di Artcurial apre in join venture con un gruppo privato del settore multimedia: il Sun Media Investiment Holding, diretto da Bruno Wu e sua moglie Yang Lan. Sicuramente un partner forte sarà utile, considerato che in Cina le case d’asta possono vendere solo su concessione governativa e che la prima casa d’asta cinese, proprio a Shanghai, è di proprietà dell’esercito. Inoltre è volontà degli iniziatori di quest’avventura rivolgersi a un mercato prevalentemente cinese, è meglio quindi che una sicura visibilità sia mediata da colossi cinesi che operano sul proprio territorio.
Per il prossimo biennio l’obiettivo è puntato sull’arte cinese, antica e moderna, per poi allargarsi nei prossimi anni a arte e artigianato europeo.
E il 17 gennaio Artcurial China ha battuto la sua prima asta, dopo solo quattro mesi di presenza sul terrirorio. Nonostante il mercato poco battuto e le aspettative scarse, la serata è stata un successo sia per partecipazione di pubblico (in gran parte asiatico) che per pezzi venduti. L’asta è addirittura stata trasmessa dalla televisione cinese che ha potuto riprendere aggueriti Cinesi determinati a non lasciare quasi nulla ai mercanti occidentali.
Solo un’opera è rimasta senza acquirente, segno di un distinto successo, quindi. Le attese erano di battere l’asta per un valore di circa 3,5 – 4 milioni di euro, si è invece totalizzato un incasso di oltre 5 milioni di euro. L’opera The artist with Beauties, autoritratto di Chen Yifei, scomparso nel 2005, padre del realismo cinese, è stata venduta a 2,26 milioni di euro. Circa 95,000 euro invece per un’opera del 1995 di Ding Yi.

Lo spazio dell'uomo. Arte e politica alla Fondazione Merz

Guillermo Cifuentes (Santiago, 1968-2007) El rumor, 2000. Installazione sonora, 60 lampade rotanti (originariamente 70) Dimensioni variabili

Ultimamente sono numerose le istituzioni che ornano le proprie mostre con titoli altisonanti e astratti che possono significare tutto e niente, per giustificare la presenza all’interno dei propri spazi di opere svariate che difficilmente dialogano tra loro.
Sembrerebbe il caso dell’ultimo allestimento alla Fondazione Merz, intitolato, per l’appunto, Lo spazio dell’uomo. Questa volta, però, la mostra può vantare un fil rouge d’eccezione, che si sbroglia piacevolmente nei suggestivi spazi della fondazione, all’interno dei quali troviamo una presentazione della scena artistica cilena, che si sviluppa attraverso due importanti matrici. Il recente passato incontra le tendenze artistiche contemporanee, in un coacervo che si caratterizza per l’elevata qualità delle opere esposte.
Per la prima volta vengono presentate in Europa ventinove opere della collezione internazionale del Museo de la Solidaridad Salvador Allende.
E già questo basterebbe a giustificare la visita alla Merz. Il progetto della mostra, però, non si ferma qui e presenta sei opere di giovani artisti contemporanei provenienti da Santiago del Cile.
Et voilà: arte contemporanea e sperimentazione, vecchio e nuovo, famoso ed emergente si fondono nella proposta curata da Beatrice Merz e da Francisca Moenne. Non semplicemente la provenienza geografica lega indissolubilmente queste opere, quanto piuttosto un messaggio identitario, storico, politico che ha caratterizzato, e tuttora permea, la storia del Cile.
Forti i risvolti socio-politici evidenti nelle opere dei giovani che hanno visto il proprio paese trasformarsi. E ancora più forte l’ideologia che spinse Allende a istituire un museo che conservasse, ma soprattutto che esponesse l’arte. A sostenere il museo, fu una volontà illuminata e lungimirante, basata su un preciso concetto di solidarietà politica e culturale. Salvador Allende nel 1971, al fine di contrastare la cosiddetta intossicazione informativa messa in atto dai suoi avversari (gli Stati Uniti e alcune multinazionali), invitò gli intellettuali e gli artisti di diversi paesi stranieri in Cile, affinché potessero informarsi e riferire all’estero ciò che stava accadendo. La maggior parte degli intervenuti, decise di donare in segno di solidarietà alcune opere, che divenneno il nucleo della collezione museale. Gli stessi artisti che altrove mettevano in dubbio o criticavano le istituzioni museali, compresero che per il Cile il desiderio di sopperire alla mancanza di un museo e di contrastare la censura era divenuto un imperativo improrogabile.
Lo stesso Allende auspicava che “la cultura non sia patrimonio di un’èlite, ma sia accessibile alla grande massa che finora ne è rimasta esclusa, fondamentalmente, ai lavoratori, quelli della terra e delle fabbriche, delle imprese e del mare”.
Oggi il museo possiede una collezione di oltre duemila opere e realizza il sogno del suo istitutore, perseguito dalla figlia. Un sogno che mette insieme le memorie storiche, l’arte e l’azione collettiva di un preciso periodo storico e dei suoi protagonisti.
Sono questi gli elementi che oggi possiamo, seppur in misura ridotta, ritrovare alla Fondazione Merz. Tra gli artisti deputati a rappresentare il museo troviamo Joan Mirò, Frank Stella, Zoran Music, Roberto Matta, Alexander Calder e tanti latinoamericani tra i quali Antonio Saura, Jesùs Rafael Soto e Arnulf Rainer.
Gli artisti scelti per narrare il Cile di oggi in questa significativa occasione, sono Claudia Aravena, Mònica Bengoa, Giullermo Cifuentes, Andrea Goic, Bernardo Oyarzùn e Sebastiàn Prece. Giovani e già maturi, esprimono un forte sentimento di appartenenza identitaria che si estrinseca nelle installazioni e nei video. Aravena esplora i significati semantici ed emotivi della paura presentando una trilogia di video che mescola sequenze di repertorio e immagini appositamente girate; Cifuentes denuncia le violazioni dei diritti umani in Cile con uno stile quasi ludico e divertente, che costringe lo spettatore ad andare oltre l'allegra apparenza e a riflettere sulla storia del novecento; Oyarzùn punta il dito sulle condizioni sociali dei lavoratori, partendo dall’esperienza paterna e innalzando un'installazione commovente. E mentre Goic ricopre di terra un film hollywoodiano, Bengoa allestisce un murales-gigantografia della propria biblioteca per riflettere sugli spazi pubblici. Infine Prece parte dalla decomposizione dei resti di libri appartenuti alla sua famiglia, per creare nuovi paesaggi che dalla tradizione prendono le mosse, in un'installazione a metà strada tra fotografia e land art.
Evidenti sono i riferimenti alla storia di ogni artista e contemporaneamente alla storia del Cile, in un processo relazionale che genera dipendenze e vincoli che permeano la creatività e la rendono esclusiva, irripetibile, unica.
Purtroppo tali rinvii risultano quasi incomprensibili al fruitore a meno che questi si rivolga alle guide presenti in sala, preparate e disponibili. L'allestimento è infatti spoglio di qualsivoglia didascalia o pannello informativo. Non è chiaro quale sia il principio che ha orientato la scelta dei curatori a tal proposito; trattandosi di una fondazione che ha vocazione museale ci si aspetterebbe una maggior attenzione alla divulgazione e alla presentazione delle opere, nello spirito educativo che un museo dovrebbe avere. Chissà cosa penserebbe di tale grave mancanza il generoso Salvador Allende... Infine un ultimo avvertimento per coloro che intendono recarsi alla Fondazione Merz: Lo spazio dell'uomo contiene due esposizioni in una, che iniziano insieme, ma che hanno durata differente. Fino al 30 marzo sarà possibile vedere la mostra nella sua interezza, dopodichè, fino all’11 maggio resteranno le sei opere della Selezione Giovani.

Sguardi interiori: arte al femminile a Padova

Shirin Neshat Birthmark, 1995 Gelatin silver print & ink, cm. 28 x 35 courtesy collezione privata Sale (AL)

C’è tempo fino al 22 marzo per cogliere l’occasione di visitare una mostra che presenta un’eccezionale panoramica sull’arte femminile.
Nonostante il numero delle opere sia limitato, la completezza e la qualità dei lavori presenti rendono l’esposizione di un livello decisamente elevato, superiore alla media, rispetto a tante altre che continuamente vengono allestite.
A Padova, la galleria Sottopasso della Stua offre ai propri visitatori una collettiva fotografica di forte impatto emotivo e di sicuro interesse mediatico. Talvolta basta avere un paio di grandi nomi per ottenere successo di pubblico e critica, in questo caso la rosa completa delle artiste selezionate è composta da estete di fama mondiale, i cui lavori da tempo ci emozionano: Marina Abramovich, Vanessa Beecroft, Isabella Bona, Giulia Caira, Silvia Camporesi, Tea Giobbio, Nan Goldin, Mona Hatoum, Barbara La Ragione, Mara Mayer, Shirin Neshat, Pipilotti Rist, Cindy Sherman.
Lavori di donne che indagano l’universo femminile, lo analizzano, lo sezionano, stimolando la riflessione sulla condizione di genere nella società e nell’arte contemporanea. Argomento di moda in questi ultimi anni, ma si sa: cavalcare un trend politicamente corretto in maniera così generosa non può che far bene al mondo della cultura. D'altronde la produzione stessa di queste artiste, tutte a proprio modo impegnate nell’affermazione di una poetica artistico-sociale dal forte impatto passionale, testimonia quanto l’argomento sia attuale e sentito.
Unico neo: rimane sospesa la questione sul perché nominare un uomo per la curatelia, quasi che alle donne venga sì concesso di dilettarsi (egregiamente) con l’arte, ma che non ci si azzardi a voler essere troppo pervasive! Fortuna che il curatore scelto abbia un’indubbia competenza nel settore. Polemiche femministe a parte, la mostra è stata promossa dalle istituzioni pubbliche e si inserisce nella serie Racconti di Donne.
Le opere proposte esplorano le dinamiche femminili, ora quotidiane ora oniriche, ora sociali, ora intime, presentando la donna nel rapporto con sé stessa e il proprio corpo o nelle consuetudini interrelazionali. Ciò che accomuna le diverse espressioni artistiche è saper scrutare una condizione esistenziale, una dimensione esperienzale unica ma allo stesso tempo condivisibile, vero fil rouge della mostra. Inoltre la forza delle opere rende la visita conturbante. Tra le artiste presenti alcune sono conosciute e apprezzate per il loro essere inquieto, che esprimono attraverso opere provocanti, dirompenti, perturbanti, in grado di dar vita a un filone dell’arte contemporanea unico, celebrato ora a Padova.
In galleria c’è la body art, il ritratto, il travestismo, l’ibridazione, la denuncia sociale, il rapporto con la bellezza e la moda… una serie di universi non solo femminili che qui però pongono l’accento sul mondo delle donne, la loro forza o le loro insicurezze. La mostra nel suo complesso, e ogni lavoro in particolare hanno una capacità generativa incredibile.
Eterea l’opera di Silvia Camporesi che indaga il rapporto con il proprio io, (o con l’altro?) attraverso un’immagine efficace che contrappone la serenità dello sfondo al turbamento prodotto da domande esistenziali. Il titolo Il latte e la carne, la scelta dei toni e dei contrasti spiazzano il fruitore estasiato da tanta bellezza e turbato da un’indefinibile disagio.
Affascinante il lavoro di Tea Giobbio, Un viaggio: autoritratti in bilico tra uno scatto rubato e una posa curata in maniera certosina, riporta alla mente conflitti generazionali e alcune intime fotografie di Carlo Mollino. Un nostalgico bianco e nero induce a riflettere sul concetto di femminilità nel passato e nel presente.
Denuncia sociale e riflessione sui ruoli e le culture nei lavori di Shirin Neshat, Giulia Caira e Nan Goldin, recentemente insignita del più prestigioso premio per la fotografia: l’Hasselblad Award. Sguardi orientali, mediorientali e occidentali nelle donne ritratte che, pur così distanti tra loro, sanno esprimere la stessa inquietudine universale, una nausea quasi sartriana contrastata da una sotterranea scintilla vitale.
Creature ibride, algide o metarmofiche per Isabella Bona, Vanessa Beecroft e Pipilotti Rist, che ci permettono di interrogarci sulle schizofreniche personalità della donna contemporanea, in bilico tra le certezze e le insicurezze che i cambiamenti radicali impongono.
Spiace quasi lasciare la galleria; sicuramente nella mente una serie di esperienze estetiche e una sfilza di riflessioni. Argomenti: la seduzione, i ruoli sociali, la famiglia, il rapporto con il corpo, le relazioni intime… in una parola il complicato e allo stesso tempo semplice, affascinante, universo femminile, per una volta, finalmente, rappresentato da chi ne fa parte.

Biennale di Berlino, 5 aprile - 15 giugno 2008

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°4 - aprile/maggio 2008)

Marzo 2008. Se provassimo a tenere un diario sul quale annotare gli appuntamenti dell'arte durante un anno o due e cercassimo di seguirli tutti, da comuni cittadini o appassionati, potremmo quasi smarrirci tra fiere, premi, mostre e biennali.
Per chi segue da vicino questo pantagruelico ambiente, alcune dinamiche non possono sfuggire. Vi sono luoghi nei quali l'arte pare auto-generarsi, insediarsi naturalmente, quasi suggesse la linfa vitale di quegli stessi territori. Normalmente si tratta di posti caratterizzati dalla Presenza. O dall'Assenza.
Laddove vi è un brulicare di creatività contagiosa, uno scambio spontaneo di saperi e knowhow, è naturale che si sviluppino fervide correnti di pensiero: spontaneamente si creeranno gruppi di intellettuali e le diverse forme artistiche troveranno ampi spazi di crescita. È facile che in simili contesti anche la governance sia "illuminata" e agisca in favore di tale incremento; tanto più saprà essere discreta, tanto migliore sarà il risultato, quasi fosse un burattinaio: se ne vedessimo le mani, lo spettacolo sarebbe irrimediabilmente rovinato.
Parallelamente vi sono luoghi che dall'esterno paiono aridi deserti culturali, nei quali tutto tace. Periferie metropolitane o quartieri cuscinetti tra un luogo ed un altro della stessa città possono al contrario celare sottesi fermenti. Oppure può trattarsi di luoghi in trasformazione storica, che attraversano momenti di transizione nei quali si ha quasi la necessità di fermarsi, guardarsi intorno, cercare di capire... In questi casi la mano invisibile delle politiche culturali è quasi assente, non perchè disinteressata ma poiché realmente ignora quali siano le potenzialità che lentamente lievitano.
E poi c'è un luogo dove queste realtà, apparentemente opposte, co-esistono. È Berlino: metropoli contemporanea per eccellenza ma allo stesso tempo città con un passato storico così suggestivo da trascendere ogni angolo. In questo passato Berlino ha affondato le sue radici e da qui ha saputo ripartire. Quasi vent'anni fa il muro che divideva il capitalismo dal comunismo è stato abbattuto e mondi tanto lontani, seppur vicinissimi, hanno potuto unirsi, abbracciarsi, fondersi e generare una capitale nuova, europea e cosmopolita, storica e contemporanea. Forti contraddizioni hanno caratterizzato la città: in primo luogo un crollo economico in netto contrasto con una solida economia nazionale. In secondo luogo, Berlino rimane città mitteleuropea in un paese che è stato tra i fondatori dell'Unione Europea, ma allo stesso tempo è quanto di più a est ci sia nella vecchia Europa. È l'unica città ad aver fatto simultaneamente parte, a livello socioculturale, dell'Europa dei quindici e della più recente Europa dei venticinque.
Ed è qui che un vasto numero di artisti ha creato un epicentro culturale interessante ed eterogeneo, nato spontaneamente ma da subito sostenuto da politiche cittadine lungimiranti che hanno avuto il merito di ampliare i già ampi spazi deputati al pensiero.
In un decennio circa, l'arte a Berlino è risultata un fenomeno bottom up e allo stesso tempo top down, tanto da rendere la città la capitale della contemporaneità per eccellenza.
Dello stesso parere paiono essere Elena Filopovic e Adam Szymczyk, curatori della quinta edizione della Biennale di Berlino. (Si veda a tal proposito l'intervista di Alexandra Wolframm, ArtKey n.2, dicembre 2007)
Dieci anni di Biennale non fanno che confermare quanto detto finora, le caratteristiche di Berlino rendono la sua Biennale un evento politico -come è sempre una manifestazione di questo tipo- che ha saputo celebrare i circoli artistici, gli atelier, le università e i numerosi punti di interesse cittadini. L'approccio della Biennale non è invasivo, al contrario: la scelta dei curatori conferma una volontà conscia di quanto importante sia per l'arte la propria indipendenza, l'essere slegata dai mercati e dalle convenzioni. Szymczyk e Filipovic sono noti, infatti, per le proprie posizioni autonomiste, talvolta in netto contrasto con le richieste imposte dal sistema, oltre che per aver promosso un'arte giovane e impegnata, com'è negli obiettivi della Biennale.
Fondata nel 1996 da Klaus Biesenbach, direttore del KW Institute for Contemporary Art, e da un gruppo di collezionisti e critici, la Biennale di Berlino si ispirò al successo della già celebre Biennale veneziana. Da subito però gli organizzatori vollero differenziarsi e scelsero di farlo sostenendo l'arte giovane, (per quanto in gran parte già ri-conosciuta), promuovendola e creando un circuito fecondo ad essa dedicato. Il curatore della prima manifestazione fu proprio Biesenbach, coaudiuvato da Nancy Spector e Hans Ulrich Obrist. La Biennale del 2001 ebbe come curatori Saskia Bos che passò il testimone nel 2004 a Ute Meta Bauer. Nel 2006 ci si avvalse di un trio di curatori composto da Maurizio Cattelan, Massimilano Gioni e Ali Subotnick.
L'edizione di quest'anno, il cui tema è When things cast no shadow, mette insieme artisti di diverse generazioni e nazionalità accomunati dal saper proporre qualcosa di diverso nel panorama dell'arte. I curatori hanno dichiarato di voler proporre lavori svincolati da precise unità o tendenze aclamate. La ricerca della Biennale di quest'anno punta direttamente allo scambio intellettuale tra l'artista e il fruitore, l'artista quindi è visto come essere umano unico e creativo e non come appartenente a questa o quell'altra corrente. Questo ambizioso progetto è stato presentato da Szymczyk e Filipovic il 16 marzo, presso ill Museo di Arte Moderna di Wasarm, durante quello che è stato il momento inaugurale della Biennale che si concluderà a metà giugno.
Dislocata in diverse sedi si articola in eventi by day e momenti by night, i primi si sviluppano in quattro sedi espositive nelle quali trovano spazio una cinquantina d’opere appositamente commissionate e installazioni site-specific. Alla sera, invece, numerosi eventi vengono organizzati qua e là in differenti spazi urbani. Il titolo scelto per questi sesantre momenti serali è di per sé ammicante e ironico Mes nuits sont plus belles que vos jour | My nights are more beautiful than your days ossia “le mie notti sono più belle che i vostri giorni”.
La Biennale di Berlino si prefiggen quindi di allargare i concetti di spazio e di tempo, scegliendo spazi e orari inconsueti e privilegiando il dialogo tra l’arte e il contesto cittadino. A tal proposito le quattro sedi espositive non sono ovviamente state scelte a caso: la selezione ha voluto privilegiare alcuni luoghi ritenuti cruciali nella vita di Berlino e della sua Biennale dal punto di vista culturale ma soprattutto storico e sociale. L'arte quindi si riappropria e anima gli spazi nei quali il tessuto sociale freme e si innestano moti vitali. Inoltre tutte le sedi sono state scelte anche per la propria peculiarità architettonica che ne fa posti unici e diversi tra loro, in modo che ogni artista sia invitato a rapportarsi con condizioni distinte ed esclusive. Nello specifico le quattro sedi sedi sono la Neue Nationalgalerie, il KW Institute for Contemporary Art, il centro dedicato alla scultura ossia lo Skulpturenpark Zentrum e il padiglione Schinkel. In quest’ultimo si alternernano le mostre personali di diverse personalità del mondo dell’arte, dell’architettura e del design, in una sequenza di solo show di breve durata. Si inizia con La lampe dans l’horloge di Janette Laverrière che in collaborazione con Nairy Baghramian cura anche il concept dell’allestimento, dal 20 marzo al 6 aprile. Segue Pushwagner, ideato e curato da Lars Laumann, dall’11 al 27 aprile. Una retrospettiva sull’architetto Ettore Sottsass, scomparso di recente, curata da Lili Reynaud-Dewar verrà allestita dal 1° al 18 maggio. Sarà poi la volta di un altro omaggio, questa volta al turco Masist Gül, in un’esposizione curata da Banu Cennetoğlu e Philippine Hoegen, dal 23 maggio all’8 giugno. Chiuderà i battenti la mostra su Zofia Stryjeńska, curata da Paulina Olowska, dal 13 al 29 giugno.
Le altre sedi d’altro canto non sono da meno: per ognuna è previsto un ricco programma.
Al KW Institute for Contemporary Art visual art e installazioni, gli artisti presenti sono Babette Mangolte, Michel Auder, Patricia Esquivias e Ahmet Öğüt. Nell’attico, trasformato per l’occasione in un’installazione, storie narrate da Tris Vonna-Michell.
Alla Neue Nationalgalerie ci accolgono una videoinstallazione di Susanne M. Winterling, una scultura di Gabriel Kuri e un lavoro sull’archittettura di Cyprien Gaillard.
Al Skulpturenpark Berlin_Zentrum un progetto della ceca Kateřina Šedá sulle nuove comunità urbane, un altro lavoro di Lars Laumann, questa volta un film che narra il matrimonio tra una donna e il muro di Berlino e infine una scultura di Ania Molska.
Come promesso dagli organizzatori, quindi, artisti di eterogenee generazioni e provenienze geografiche per animare una Biennale che sicuramente si farà ricordare.

Art Dubai, 19 - 22 marzo

(articolo pubblicato su Artkey n°4 - aprile/maggio 2008)

Ormai tutti i principali paesi del mondo hanno la propria fiera di arte contemporanea, un appuntamento annuale che diviene luogo di incontro, volano economico e che porta sicura visibilità. I media ne parlano, i visitatori giungono da lontano, il commercio si muove e i curiosi ne approfittano per dare un’occhiata. Le ricadute di una fiera ben organizzata sono sempre positive.
Quest’anno mentre in Europa i figli festeggeranno i propri padri nel giorno della festa a loro dedicata, negli Emirati Arabi si inaugurerà Art Dubai.
Quattro giorni, settanta gallerie, e tanti interessanti eventi correlati, per una fiera che vanta tre sedi organizzative in tre continenti diversi: oltre alla sede di Dubai diretta da Benedict Floyd, co-fondatore di Art Dubai, vi è una sede a Honk Kong, gestita dalla direttrice Camilla Liverton, per coordinare le attività con gli stakeholder asiatici. Infine c’è la sede di Londra diretta da John Martin co-fondatore e direttore della Fiera.
I numeri legati all’evento e la singolare gestione amministrativa non fanno che confermare come l’attenzione del mondo dell’arte contemporanea stia varcando sempre più spesso quelle frontiere che a lungo ne hanno limitato il campo visivo. Non più solo artisti europei o americani che hanno caratterizzato tanta storia dell’arte e creato stili e pensieri ormai celebri, ma nuove contaminazioni globali si affacciano all’orizzonte. Le grandi istituzioni museali, gli organizzatori di eventi fieristici e di aste, i collezionisti e i galleristi delocalizzano e viaggiano in continuazione. Gli Emirati Arabi in particolare e il medio oriente in generale sono tra le mete prescelte, insieme al subcontinente indiano e all’estremo oriente.
Art Dubai è quindi l’occasione per concentrare in pochi giorni autorevoli presenze, per innescare nuove sinergie e per allestire un momento di incontro e scoperta reciproca tra le varie forme d’espressione provenienti da diversi contesti culturali.
Oltre ai consueti stand per i galleristi, è tradizione della Fiera organizzare un Global Art Forum durante il quale si susseguono dibattiti e conferenze tenute da esperti e opinionisti internazionali. Il tema di discussione di quest’anno sarà il sostegno pubblico alla cultura: collezionismo, sovvenzioni, patronati e parternariati gli aspetti salienti, argomenti tanto attuali quanto urgenti. Per dimostrare quanto tengano alle sinergie pubblico-privato e arte-territorio, gli organizzatori hanno previsto la creazione del cosiddetto Art Park: un project space studiato per ospitare opere site specific e sperimentazioni in situ, con una particolare attenzione alla video arte. Alcuni degli artisti presenti ad Art Park saranno: Idris Khan, Jittish Kallat, Mohammed Zeeshan e Khalil Chishtee.
Tra gli eventi collaterali, originale sarà la mostra Desperately seeking Paradise, curata da Salima Hashmi, che presenterà un’esauriente selezione di opere di undici artisti pakistani. Allestita nell’apposito Pakistan Pavillion affronterà il tema del paradiso, da sempre caro alla filosofia del continente indiano, e offrirà un momento di visibilità e riscatto per un popolo oggi più che mai oppresso da turbolenze politiche e violenze civili.
Segnaliamo infine la presenza delle gallerie italiane presenti in fiera: la romana Oredaria, Giorgio Persano da Torino e la galleria Continua di San Gimignano.