Alienazione e cessione nel Codice dei Beni Culturali

(nota: questo articolo è stato scritto per Tafter Journal e pubblicato sul numero 11 - febbraio 2009.)

L'Italia può vantare una vera e propria tradizione di legislazione dei beni culturali: già prima dell'unificazione, la giurisprudenza dei diversi stati preunitari dimostrò particolare attenzione a quelle che oggi potremmo definire politiche culturali. Talvolta una illuminata concezione della res publica, più volte il fascino della figura del potente mecenate, favorirono una consapevole indivisibilità del binomio patrimonio-territorio.

1. Excursus storico
Il riconoscimento del legame tra la cultura di un determinato luogo e il suo passato storico, nonché la volontà di contribuire al futuro artistico, hanno permesso lo sviluppo di un territorio caratterizzato dalla presenza di monumenti, musei, palazzi, così come di bellezze paesaggistiche e patrimonio naturale. L’Italia offre tutto questo e lo contestualizza in un insieme, in un unicuum straordinario che contribuisce a definire l’identità culturale nazionale. La preziosa tipicità del nostro patrimonio ha portato al riconoscimento della necessità di salvaguardarlo, tutelandolo in situ. La forza di questo capillare sistema di tutela risiede in una scelta precisa, conscia, che i vari legislatori preunitari prima, e il legislatore nazionale poi, hanno attuato, decidendo di privilegiare i legami con il territorio, la sua storia, i luoghi. Chiaramente le prime istanze non furono dettate dalla generosità pubblica: spesso si volevano conservare antiche memorie gloriose, simbolo di ricchezza e potere; ciò spiega perché tanto gli ecclesiastici quanto gli aristocratici si siano assunti, nel tempo, il ruolo di conservatori e collezionisti. A partire dalla seconda metà del XVI secolo si affermano due corpi legislativi: il primo, ampio e interessato a diversi settori, non si limitava solo alla tutela, ma emanava norme per la circolazione, la conservazione, le scoperte delle opere, evitandone la dispersione. Il secondo privilegiava la conservazione creando laboratori e studi per la catalogazione e il restauro. La maggior parte delle norme, tuttavia, mirava alla conservazione in loco del patrimonio, ai fini di evitarne la fuoriuscita e la dispersione, proponendo a tale scopo misure repressive cautelari. Durante il XIX secolo si affermarono proposte liberali il cui interesse primario non era certo la tutela del patrimonio culturale. Lo Statuto Albertino promuoveva la proprietà privata come libera e solenne: “Tutte le proprietà senza alcuna eccezione sono inviolabili” (art. 29 Stat. Albertino); in osservanza a tale principio fu deciso che lo Stato sarebbe intervenuto, attraverso l’esproprio dei beni, solo laddove l’incuria del proprietario avesse minacciato l’esistenza di un patrimonio culturale. Inoltre, anche dopo l’unificazione nazionale, resistettero le codificazioni regionali preunitarie, che ostacolarono la nascita di un sistema organico. Seguì, fino agli inizi del XX secolo, l’episodica emanazione di leggi di protezione e conservazione; si avvertiva tuttavia l’urgenza di una normativa unitaria. Il 1902 fu l’anno della legge Nasi alla quale seguì, nel 1909, la legge Rosadi; diverse altre norme vennero emanate, conviventi con regimi preunitari ancora vigenti in diversi settori. La svolta arrivò nel 1939, quando furono varati tre rilevanti corpi legislativi1 il cui fondamento ideologico comune era l’interesse per il “bello”, sia in arte sia in natura, e la consapevolezza di un legame tra luoghi e forme d’arte degno di salvaguardia. Negli anni quaranta, il Codice Civile (1942) e la Costituzione (1948) sancirono la volontà di sottolineare il valore stesso dei cosiddetti beni culturali: la tutela non più semplicemente perpetuata in maniera statica e la valorizzazione, finalmente, concepita come strumento per l’elevazione culturale dei singoli cittadini e della collettività.

2. Tempi moderni…
L’articolo 9 della Costituzione, inserito non a caso nei Principi Fondamentali della nostra Carta, abbandona il significato puramente “estetico” e configura due funzioni principali: promozione e tutela. L’ordine mai casuale dei termini determina la volontà del Legislatore: il fine ultimo (la promozione) deve essere perseguito attraverso la tutela (conservazione, protezione); la giustificazione di tale precetto è nel riconoscimento del valore di cui i beni culturali risultano portatori, inteso come espressione identitaria e culturale di una comunità nazionale. Le diverse funzioni legislative, alle quali si aggiungeranno fruizione e valorizzazione, divengono necessarie a favorire il pieno sviluppo dell’individuo, in osservanza al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. Il Costituente ha quindi voluto affermare l’esistenza di un diritto alla cultura collettivo e garantito, che assume valore di utilità sociale e limita la libertà di iniziativa economica. La Costituzione esplicita e formalizza quanto già contenuto nella giurisprudenza precedente: il legame tra cultura e natura, vale a dire tra beni culturali e paesaggio; d’ora in avanti, quindi, la definizione di “patrimonio” acquista un duplice significato. Seguiranno anni di indagine sulla situazione generale (Commissione Franceschini) e l’emanazione di norme di regolamentazione di differenti settori (urbanistica, archivi, scavi etc.) Del 1974 fu l’istituzione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, nato dalla costola del Ministero della Pubblica Istruzione. Il nuovo dicastero impiegò anni a organizzarsi, senza emanare sostanziali riforme, eccezion fatta per l’estensione di numerose competenze regionali in materia di beni culturali2. La legislazione successiva è stata in parte abrogata e inserita nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, in particolare il d. lgs 31 marzo1998, n. 112 “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali”, e il cosiddetto Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali, adottato con d.lgs 29 ottobre 1999, n. 490. In particolare il T. U. e il Codice si sono succeduti in un periodo di continua evoluzione legislativa che ancora caratterizza il sistema paese; necessari - a causa di una eccessiva frammentazione della materia - sono tuttora al centro di una fervida discussione che esce dai banchi del Parlamento e raggiunge i diversi centri nei quali gli operatori culturali si adoperano e si confrontano. Il Codice è entrato in vigore il 1° maggio 2004, istituito sulla base della legge 6 luglio 2002, n. 137 che aveva delegato il governo ad adottare “uno o più decreti legislativi per il riassetto e la codificazione delle disposizioni legislative” in materia di beni culturali e ambientali. La delega, considerata la complessità soggiacente al riordino di un intero settore giuridico, troppo a lungo mortificato, prevedeva già (art. 10,4) “Disposizioni correttive ed integrative […] entro due anni dalla data” di entrata in vigore della legge principale. A breve distanza temporale sono stati emanati i decreti legislativi n. 156 e 157 del 24 marzo 2006, il primo dedicato ai beni culturali, il secondo al paesaggio. Tuttavia, ulteriori esigenze di riordino e un nutrito dibattito scientifico hanno portato alla modifica della l. n.137/2004, laddove la previsione del primo biennio ha portato all’estensione del lasso temporale che permette di emettere decreti integrativi e correttivi. Nell’ultimo biennio, quindi, si è proceduto principalmente all’intervento normativo relativo a specifici settori.
• Per i beni culturali:
1) diplomazia culturale: adesione ad accordi internazionali con conseguente considerazione degli obblighi derivanti, in particolare per snellire la circolazione delle opere d’arte;
2) beni archivistici: riconsiderazione della disciplina;
3) salvaguardia del patrimonio appartenente a enti pubblici, ecclesiastici e privati no profit: l’argomento, in particolare la disciplina dei procedimenti di dismissione e concessione, ha scatenato non poche polemiche. A tal proposito è necessario sottolineare come una certa e talvolta sconsiderata esterofilia contrasti e si scontri con altrettanto rigide posizioni di salvaguardia degli status quo, in una danza ipnotica e ripetitiva.
• Per il paesaggio:
1) ridefinizione dell’assetto di competenze tra i vari enti territoriali, in attuazione non solo di sentimenti giurisprudenziali consolidati, ma anche della ratifica della Convenzione Europea del Paesaggio del 2006. Qui, il concetto di paesaggio, in linea con il già citato art. 9 Cost., è da intendersi come contesto territoriale (spazio naturale, urbano e perturbano) dalla forte connotazione culturale costitutiva dell’identità di una nazione. Il dibattito ha anche messo in luce come la definizione di “paesaggio della nazione” del 1948 risulti oggi poco adeguata, considerata la presenza italiana in organi ed enti sovranazionali e internazionali;
2) previsione del coordinamento operativo da parte dello Stato, in quanto titolare dell’interesse preminente, della pianificazione paesaggistica;
3) nuovo regime per le autorizzazioni paesaggistiche e innovazioni organizzative, in particolare con estensione del parere vincolante del soprintendente per gli interventi in aree sottoposte a tutela. È necessario evidenziare come la situazione politica italiana di continui cambiamenti dei vertici governativi non giovi all’omogeneità della materia. Nonostante alcune prese di posizione comuni a entrambi gli schieramenti politici che si sono alternati nell’ultimo decennio, le politiche culturali si trovano sballottate tra istanze differenti riproposte ciclicamente ogni due-cinque anni. I continui passaggi del testimone non favoriscono, inoltre, l’attuazione di politiche di lungo periodo, né consentono agli amministratori di espletare i propri mandati; ciò favorisce, ancora una volta, quella frammentazione e disomogeneità di precetti che il coro quasi unanime degli operatori della cultura lamenta da tempo.

3. Alienazione e cessione: timori infondati? La valorizzazione torna al centro
Ci permettiamo in questa sede di approfondire l’argomento cessioni e dismissioni dei beni culturali pubblici, poiché risulta urgente l’analisi di uno degli aspetti più controversi e attuali della giurisprudenza di settore. Con il d. lgs. n. 62 del 2008, significativa è la ripresa di alcuni contenuti a suo tempo abrogati proprio con l’introduzione del Codice Urbani. La normativa vigente prevede che i beni privati possano essere alienati liberamente, salvo l’obbligo, si badi bene, di denuncia al MiBAC. Per quanto concerne i beni pubblici, questi si dividono in:
1) beni assolutamente inalienabili;
2) beni temporaneamente inalienabili;
3) beni alienabili (secondo quanto disciplinato dagli artt. 55 e 56 Cod.).
(La presenza della seconda categoria, a prima vista incomprensibile, è legata alla particolare situazione in cui si trovano quei beni in attesa del necessario procedimento di verifica previsto dal tanto contestato art. 12 Cod. BBCC).
Sostanzialmente la normativa non è stata stravolta, ma ne è stata migliorata la formulazione, ai fini di evitare lacune e incomprensioni che avrebbero potuto suscitare controversie o favorire atteggiamenti legati a interessi particolari. Veniamo quindi all’analisi delle modifiche sostanziali. Per quanto riguarda l’alienazione e le concessioni o locazioni di beni culturali pubblici, la riformulazione dell’art. 55 del Codice raccoglie il D.P.R. n. 283 del 2000, in particolare l’articolo 7, abrogato appunto con l’introduzione del testo Urbani. Si esige, per questi particolari provvedimenti, l’autorizzazione ministeriale, la cui richiesta deve essere formulata secondo una dettagliata procedura normativa che prevede, e qui viene il bello, - oltre l’indicazione della destinazione d’uso e delle modalità atte a garantire la conservazione del bene - l’esplicita informazione circa gli obiettivi di valorizzazione e fruizione che l’alienazione (o cessione) andrebbe a perseguire, nonché i tempi previsti per la realizzazione. La novità non è banale, se si considera che:
“Il regime giuridico dell'alienabilità dei beni culturali pubblici è stato uno dei punti oggetto dei maggiori contrasti, modifiche, innovazioni e correzioni di rotta tra gli istituti di tutela dei beni culturali dal 1939 ad oggi: dapprima alienabili con autorizzazione (artt. 23 e 24 legge 1 giugno 1939, n. 1089), poi del tutto inalienabili (art. 823 Codice civile), ora l'una ora l'altra possibilità (nella cospicua produzione giurisprudenziale che si è succeduta nell'interpretare gli articoli richiamati), nuovamente inalienabili (art. 54 Testo Unico del 1999), alienabili con autorizzazione e varie articolate garanzie (d.p.r. 283/2000), automaticamente alienabili a seguito di "silenzio significativo" nel procedimento di verifica (art. 27, comma 10, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con mod. con legge 24 novembre 2003, n. 326, e Codice nella originaria stesura del 2004), di nuovo alienabili con autorizzazione e alcune garanzie (nel Codice novellato nel 2006), per finire oggi al recupero della disciplina più garantista tra quelle richiamate (nuovi artt. 53-57-bis del Codice, che recepiscono i contenuti del d.p.r. 283/2000)”3.
Le recenti disposizioni si pongono, quindi, a garanzia e condizione dell’efficace responsabilità dei privati, obbligati pertanto a conservare il bene in oggetto e favorirne la fruizione. La nuova formula giuridica si inserisce a complemento delle disposizioni dettate dalla legge Finanziaria 2007, che prevede, appunto, ipotesi di valorizzazione e utilizzazione a fini economici di alienazione, concessione e locazione di immobili e beni demaniali. L’eventuale vendita o locazione, anche di beni appartenenti alla chiesa o a privati no profit, non deve in nessun modo limitare la valenza collettiva e la destinazione culturale del bene in oggetto. I recenti allarmismi sulla disciplina della materia potrebbero quindi placarsi, per lo meno in parte, considerata la volontà recentemente espressa dal Legislatore di garantire la funzione culturale del bene, quale che sia il proprietario. Senza dubbio, le modalità di controllo vanno non solo esplicitate, ma soprattutto applicate, al fine di impedire e disincentivare eventuali abusi, perpetrati a scapito dei vantaggi collettivi previsti. Se la normativa troverà completa applicazione, la differente titolarità dei beni culturali non sarà un limite sociale, ma permetterà lo sviluppo delle funzioni previste dal Codice: tutela, conservazione, valorizzazione, promozione, fruizione. Le prime quattro si esplicitano, e assumono valore, solo laddove finalizzate al perseguimento della quinta.

Note
1 L. 1089/1939 sulla tutela di interesse storico artistico; l. 1497/1939 sulle protezione delle bellezze naturali e panoramiche; l. 2006/1939 sulla disciplina degli archivi.
2 D.P.R. 14 gennaio 1972, n. 3; D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8; D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616
3 Angela Serra, L'alienazione e l'utilizzazione dei beni culturali pubblici: gli artt. 53-64 in Aedon 3/2008

Bibliografia
Anis, M., Fiorillo, M., L’ordinamento della cultura – Manuale di legislazione dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2003
AA.VV., Il nuovo codice dei beni culutarali e del paesaggio: il testo aggiornato del Dlgs 42/2004 e l'analisi degli esperti. Il Sole 24 Ore, Milano, 2008
Barbati, C., Cammelli, M., Sciullo, G., Il Codice dei beni bulturali e del paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2007
Cortese, W., I beni culturali e ambientali, profili normativi, Padova, Cedam, 2002
Settis, S., Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002

Sitografia
Aedon – Rivista di arti e diritto online, Il Mulino. In particolare n. 1/2004, n. 2/2004 e n. 3/2008 (www.aedon.mulino.it)
Angela Serra, L'alienazione e l'utilizzazione dei beni culturali pubblici: gli artt. 53-64 in Aedon 3/2008 (www.aedon.mulino.it)

Documentazione
Schema di decreto legislativo recante ulteriori disposizioni integrative e correttive al Codice dei beni culturali e del paesaggio in relazione ai beni culturali. Relazione illustrativa del 24 gennaio 2008.
Schema di decreto legislativo recante ulteriori disposizioni integrative e correttive al Codice dei beni culturali e del paesaggio in relazione al paesaggio. Relazione illustrativa del 24 gennaio 2008.

Luci e ombre di Diego Perrone per la Fondazione Casoli

Ha un titolo che è poesia l’ultima opera di Diego Perrone: “Il perimetro del lavoro è l’ombra della sua immagine e si muove con il sole”. Il lavoro in questione è il progetto del nuovo padiglione mobile della Fondazione Casoli, che sarà allo stesso tempo il tema da sviluppare nel corso del 2009. L’ombra, le ambivalenze, il doppio; ma anche i confini labili, il movimento, i cicli… La Fondazione non ha, per scelta, una sede fissa: "Pensiamo che avere una sede fissa sia una soluzione per farsi guardare dentro e noi invece dobbiamo e vogliamo guardare fuori. Il talento, la scintilla possono manifestarsi ovunque. Noi vogliamo essere in quel posto dove ciò accade!" E ogni anno il direttore artistico della Fondazione, Marcello Smarrelli, propone ad un artista di realizzare il padiglione mobile. Quest’anno l’invito è andato a Diego Perrone, piemontese, classe 1970.
Considerato che Perrone vive tra Asti, Milano e Berlino, il tema della mobilità non gli è certo nuovo. I suoi lavori, dai titoli che sembrano ministorie, sono stati esposti in musei internazionali e gallerie prestigiose, nonché alla 50. Biennale di Venezia (2003, Padiglione Italia a cura di Massimiliano Gioni) e alla 4ª Biennale di Berlino (2006, a cura di Maurizio Cattelan, Massimiliano Gioni, Ali Subotnik).
La proposta per la Fondazione Casoli, che rimarrà allo stato di progetto, è una padiglione mobile che “cambia aspetto in base alle immagini e agli oggetti che di volta in volta ospita. Le ombre create dalla scultura mutano di continuo, delineando un perimetro sempre diverso che si fonde con la forma, diventando un corpo unico”.
Attraverso apposite cerniere e cardini, il padiglione può modificarsi, assumere inclinazioni diverse, modificare le proprie geometrie. Assieme alla struttura perimetrale, le ombre si modificano, divenendo esse stesse parte integrante dell’opera, condividendone la fisicità. Allo stesso tempo, la struttura portante partecipa alle trasformazioni continue del proprio riflesso. L’ombra non è più quindi sinonimo di parte oscura, non illuminata; al contrario diviene estensione della superficie, e contribuisce a definirne lo spazio.

Dalle stelle (e strisce) alle stalle: Shepard Fairey al centro di vicende giudiziarie

In questi mesi la campagna elettorale del neopresidente statunitense ha avuto un suo “tormentone”: l’immagine di Shepard Fairey. Il graffittista, prima conosciuto solo per i suoi guai con la legge, ha ritratto il volto del presidente utilizzando i colori “americani”: rosso, blu e bianco; il celebre poster Obama Hope ha fatto il giro del mondo. Dal punto di vista puramente artistico il manifesto sa molto di déjà vu e probabilmente ha colpito proprio per il suo essere diretto, riconoscibile, comprensibile; sulla scia della popolarità di Obama e del necessario desiderio di riporre le speranze collettive in una nuova icona. Il poster è diventato in breve il simbolo della campagna elettorale, non c’è probabilmente luogo del mondo nel quale non sia arrivato.
Non essendo stato originale nell’esecuzione Fairey poteva per lo meno sforzarsi di esserlo nella scelta dell’immagine: recentemente, infatti, l’agenzia di stampa Associated Press (una tra le maggiori degli States) ha accusato l’artista di aver copiato il ritratto da una foto di proprietà dell’agenzia. La foto, risalente a tre anni fa, ritraeva il candidato presidente assieme all’attore George Clooney; l’autore dello scatto fu il fotogiornalista Mannie Garcia, il quale non lavora più per Associated Press e che, quindi, potrebbe vantare gli stessi diritti sull’immagine “rubata”. Eppure Garcia non pare disposto a tanto, anzi, avrebbe dichiarato di aver visto la locandina per mesi senza neppure collegarla al proprio lavoro.
Da parte sua, Fairey ha rivelato di non aver percepito compenso per l’immagine e poi, in un momento di euforia simile, non sarebbe vantaggioso per la visibilità dell’Agenzia un’azione legale di punizione del colpevole. L’Associated Press ha, infatti, fatto notare che l’utilizzo, anche senza scopo di lucro, delle immagini coperte da copyright va autorizzato esplicitamente. Fairey si è comunque prontamente rivolto ad un legale, il quale avvisa che l’eventuale difesa potrebbe far appello al Fair Use previsto dalla legislazione nordamericana.
Il dibattito è aperto e numerosi giuristi esprimono, attraverso i media locali, le proprie opinioni discordanti.
Intanto, è di venerdì sera la notizia dell’ennesimo fermo di Fairey che, mentre si recava all’inaugurazione della sua personale presso l'Institute of Contemporary Art di Boston, è stato fermato dalla polizia e portato al commissariato. L’artista è stato arrestato per aver, secondo la questura, “imbrattato” i muri di Boston. Fairey, trentottenne, rischia fino a tre anni di galera.
L’aspetto incredibile è che, qualsiasi sviluppo prenderanno le due vicende, Fairey si trova, in un unico momento al centro di due diatribe che necessitano di frame legislativi. Entrambe le questioni risultano controverse: copyright, immagini internet, diritto d’autore da un lato e riconoscimento della street art dall’altro. Salito alla ribalta in pochi mesi, Fairey sta già scontando gli svantaggi della notorietà, speriamo non debba scontare anche un periodo in carcere.

Intervista a Samuel Keller

(articolo pubblicato su Artkey n°7 - novembre/dicembre 2008)

Samuel Keller è sicuramente uno dei maggiori esperti di arte contemporanea: è stato direttore di venti edizioni di ArtBasel e da qualche mese dirige la Fondazione Beyeler di Basilea, il più importante museo svizzero di arte contemporanea.
La Fondazione opera come un museo privato nel quale vengono organizzate importanti eventi e mostre, in corso in questo momento una grande esposizione su Venezia. Inoltre collabora con importanti musei internazionali, tra i quali il Metropolitan, il MoMA, il Guggenheim, il Centre Pompidou e il Prado. Per un’istituzione di questo tipo le pubbliche relazioni sono imprescindibili, pertanto una figura come quella di Keller si rivela fondamentale: profondo conoscitore sel sistema dell'arte contemporana, che ha potuto osservare a lungo da un punto di vista privilegiato, si avvale di un'esclusiva rete di relazioni personali con i protagonisti del sistema. I rapporti con Art Basel non sono comunque conclusi: Keller rimane membro dell’Advisory Board e la Fondazione Beyeler ha un proprio spazio in Fiera.

Susanna Sara Mandice: I musei della contemporaneità sono sempre meno sterili contenitori e sempre più produttori di cultura. La Fondazione Beyeler organizza mostre, incontri, concerti… Quali sono gli ingredienti per attribuire a un museo un ruolo attivo? Samuel Keller: Il ruolo di un museo continua a essere quello di collezionare, mediare, conservare, organizzare mostre e sviluppare la ricerca. Oggigiorno, i musei d’arte si trovano a dover fronteggiare nuove sfide per adempiere a ognuna di queste mansioni e hanno bisogno di adattare i propri saperi per attrarre gli artisti, il mondo dell’arte e il pubblico. La Fondazione Beyeler gioca un ruolo attivo nel creare esperienze artistiche per un pubblico sia locale sia internazionale. Organizziamo importanti mostre sull’Impressionismo, sull’arte moderna e contemporanea. La mostra attuale “Da Canaletto e Turner a Monet” è dedicata a Venezia e al ruolo cruciale che ha avuto nello sviluppo dell’arte moderna. Abbiamo invitato due artisti contemporanei a dialogare con l’arte del passato attraverso nuovi pensieri: Vera Lutter e David Claerbout presentano due progetti correlati alla mostra in corso, rispettivamente “Images from Venice” e “Venice lightboxes”. Talvolta commissioniamo lavori come il grande wall painting di Sarah Morris, presentato l’estate scorsa. Inoltre, collaboriamo con gli artisti nell’organizzazione di performances e lavori di arte pubblica. Gli artisti possono essere chiamati per lavorare alle installazioni della collezione permanente o nelle presentazioni esterne del nostro Museo. Con molti artisti della nostra collezione condividiamo l’interesse e la passione per altre arti: la musica, il cinema, la danza, la letteratura e l’architettura. Di conseguenza presentiamo concerti (di recente abbiamo ospitato i direttori d’orchestra Walter Lewin e Seiji Ozawa), collaboriamo con compagnie di danza, organizziamo proiezioni, letture e conferenze.
Il software di un museo (le mostre e i programmi) è importante quanto l’hardware (la struttura espositiva e la collezione). Il museo ha bisogno di essere vivo. È un luogo di contemplazione e comunicazione. Organizzare mostre ed eventi rappresenta un lato della medaglia; realizzare programmi educativi, pubblicazioni e visite guidate l’altro. La Fondazione Beyeler fa tutto questo e molto di più. Attrarre il pubblico e educarlo all’arte è un processo a lungo termine. Abbiamo programmi per bambini, famiglie, scuole, giovani, neofiti, aziende, disabili, persone che vivono sul territorio e turisti, anziani e collezionisti. Io penso che la chiave sia prendersi cura del pubblico. Questo non significa abbassare i propri standard per essere più popolari, vuol dire piuttosto aiutare il pubblico ad accedere all’arte di qualità.

S.S.M. Vuole anticiparci il programma delle prossime mostre della Fondazione Beyeler? S.K. Quest’anno abbiamo proposto una mostra su Jackson Pollock e i suoi contemporanei intitolata “Action Painting”, seguita da una retrospettiva su Fernand Léger. Dopo la nostra mostra su Venezia presentremo “Visual Encounters - Africa, Oceania and Modern Art”. La prossima estate ci sarà una grande mostra su Giacometti, successivamente sarà la volta dell’artista americana Jenny Holzer in una grande mostra che coinvolgerà il Museo, la sua architettura e gli spazi pubblici. Il programma dei progetti e delle performances relative verrà annunciato a gennaio.

S.S.M. La Fondazione che lei dirige è impegnata nell’organizzazione delle esposizioni e in un’attenta politica di nuove acquisizioni. Su quali parametri si basa l’allargamento di una collezione esistente? Qual è il rapporto che la Fondazione ha con i diversi “fornitori” ossia galleristi e art sellers? S.K. Il nostro museo ospita una delle migliori collezioni d’arte moderna e contemporanea, nella quale si ritrovano nomi come Monet, Cézanne, Van Gogh, Rousseau, Picasso, Matisse, Kandinsky, Brancusi, Mondrian, Klee, Léger, Calder, Mirò, Giacometti, Ernst, Bacon, Rothko, Pollock, Warhol, Lichtenstein, Rauschenberg, fino a Fabro, Baselitz e Kiefer, acquistati in oltre di 50 anni di collezionismo da Ernst e Hildy Beyeler. Numerosi artisti sono rappresentati da opere di grande importanza, però “qualità e non quantità” è il parametro principale di questa collezione, forgiata da uno tra i leggendari collezionisti del XX secolo che conobbe personalmente molti artisti. La nostra politica di acquisizione si basa sulla volontà dei fondatori di potenziare la collezione con pezzi di eccezione. Questo può avvenire grazie ad acquisizioni, commissioni, prestiti e donazioni.
Lavoriamo attentamente con collezionisti e gallerie, artisti, agenzie di vendita all’asta e trattative riservate che si rivelano, tutti, importanti partners sia per le mostre, sia per le acquisizioni.

S.S.M. Coloro che ricoprono un ruolo come il suo devono essere allo stesso tempo curatori e manager, che tipo di figura serve ai musei di arte contemporanea? E di quali professionalità deve circondarsi un direttore museale? S.K. Essere un direttore museale è una delle professioni più eccitanti e impegnative. Gestire un museo importante come la Fondazione Beyeler con oltre 300mila visitatori (oltre il 50% dei quali stranieri) richiede uno staff che supera le 100 unità di persone e che si avvale di dozzine di professioni diverse fra loro: storici dell’arte, responsabili delle pubbliche relazioni, restauratori, amministratori e cuochi. È necessario guidare un team di specialisti tanto diversi fra loro motivandoli, malgrado le differenze culturali e gli interessi, al raggiungimento di una direzione comune. Il museo è un’istituzione pubblica con molti stakeholder appartenenti ad aree diverse, come quelle della comunità artistica: gli sponsor, i giornalisti, gli amministratori, i politici, i residenti e le organizzazioni internazionali. Bisogna agganciarli e unire le loro forze bilanciando i vari interessi in questa sfida e nella bellezza che rappresenta. La conoscenza e il giudizio critico sono cruciali nell’arte. Le competenze in comunicazione e management sono ugualmente importanti. Un’ampia rete nel sistema dell’arte e nella comunità degli affari aiuta a creare contatti negli ambienti politici e nella società. Tutto questo, però, è niente senza alti standard etici e impegno personale. Il museo esprime un ruolo decisivo nel sostenere l’arte e nel rendere l’arte sostegno della società. L’arte rappresenta la memoria collettiva della nostra cultura e della nostra civiltà, promuove la comprensione di noi stessi e degli altri e contribuisce a generare l’identità individuale e sociale. Per questo motivo non ci sono grandi città senza grandi musei. L’arte è ormai un linguaggio condiviso attraverso i continenti e può aiutarci a creare una vera e propria comunità globale.

S.S.M. Le amministrazioni pubbliche europee sono in parte costrette a ritirarsi dalla scena: dovendo far fronte a nuove emergenze finanziarie non possono più rappresentare il maggior sostenitore culturale. A chi il compito di subentrare e quali politiche pubbliche intraprendere per incentivare la partecipazione dei nuovi protagonisti? S.K. I nostri politici devono capire che la società ha bisogno dell’arte più di quanto gli artisti hanno bisogno di aiuti pubblici. Gli investimenti nella formazione e nei musei d’arte sono necessari e vengono ricompensati. Le élite delle nostre industrie creative e molti grandi uomini d’affari stanno prendendo ispirazione dall’arte. Ancora, l’arte non dovrebbe essere riservata ai privilegiati ma accessibile a tutti. Abbiamo visto un’espansione mondiale del collezionismo e delle elargizioni filantropiche. Alcune fondazioni private sono diventate professionisti influenti quanto i musei pubblici. I privati, i collezionisti, le fondazioni impegnate nel terzo settore e gli sponsor sono diventati elementi fondamentali nel finanziare programmi artistici e musei. Eppure, non possono e non devono sostituire lo Stato. In una repubblica, la cultura deve essere “res publica”. Le collaborazioni sui progetti e i partenariati pubblico/privato a lungo termine sono necessari per sostenere e sviluppare i musei d’arte. La Fondazione Beyeler è uno dei più brillanti esempi di questo modello.

S.S.M. A suo avviso, l’Unione Europea dovrebbe varare una politica culturale comune o è preferibile che ogni stato abbia la maggior autonomia possibile? S.K. Credo che ci dovrebbe essere una politica culturale dell’Unione Europa in grado di salvaguardare la nostra eredità culturale, garantire la libertà artistica e assicurare l’educazione artistica. Gli stati e le regioni dovrebbero avere il massimo possibile di autonomia per definire le loro politiche culturali e per sostenere le attività artistiche che ritengono rilevanti. L’arte ha bisogno dell’appoggio del governo ma non può essere organizzata dall’alto verso il basso, secondo modelli di governance top-down. Poiché l’arte non è la regola, ma è l’eccezione.

S.S.M. Alcuni speravano che lei assumesse la direzione di Artissima a Torino, lei ha rifiutato e indicato il nome di Andrea Bellini. Come mai? Considera il mercato delle fiere italiane poco stimolante? S.K. L’Italia è probabilmente, dal punto di vista culturale, il maggior paese del mondo. Ha la più anziana manifestazione d’arte e vanta alcuni degli artisti, delle gallerie e dei collezionisti migliori. Purtroppo non c’è abbastanza sostegno per la cultura contemporanea. E l’influenza della politica nell’arte contemporanea ha spesso arrecato più danni che vantaggi. Io amo l’Italia e non ho alcuna riserva nel viverci e lavorarci. Se ho scelto di rimanere in Svizzera, è perché la fiera d’arte più importante al mondo è Art Basel e perché il mio museo d’arte moderna preferito resta la Fondazione Beyeler.

Lo stato delle cose II. Intervista a Andrea Pizzi

(articolo pubblicato su Artkey n°8 - gennaio/febbraio 2009)

Andrea Pizzi. Classe 1970. Avvocato. Membro UIA (Union Internationale des Avocats) Paris, membro ABA (American Bar Association), USA. Dal 2005 è presidente della Commissione Diritto dell'Arte UIA. Opera nel settore attraverso una propria rete di avvocati nel mondo. Organizza seminari e conferenze internazionali per approfondire e discutere le problematiche relative al diritto dell'arte (Salvador de Bahia 2006, Parigi 2007, Bilbao 2008, Bucarest 2008, Malaga 2009).
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Susanna Sara Mandice: L’“Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei Musei” approvato con DM 10 maggio 2001 ha introdotto i cosiddetti standard museali la cui diffusione obbligatoria avrebbe dovuto sancire livelli qualitativi minimi e maggior omogeneità - anche con istituzioni straniere che adottano strumenti di riconoscimento simili -. Eppure la situazione attuale è ancora carente: numerosi istituti non hanno neppure un proprio statuto. La normativa è di fatto irraggiungibile? Fatte le regole, come si può agevolarne l’attuazione?

Andrea Pizzi: Nella tradizione giuridica italiana la tutela si estendeva sul patrimonio artistico e culturale nella sua interezza, a prescindere da chi e da come fosse posseduto. I musei ne erano semplicemente parte, carenti se non addirittura mancanti di autonoma identità: unità funzionali di sovrintendenze, diramazioni di assessorati comunali, etc. L’idea sociale di museo non trovava una diretta corrispondenza giuridica.
La struttura tipica del museo italiano era dunque il museo-ufficio, struttura che comportava evidenti limiti alla capacità di espressione dello stesso, anche in relazione all’attività delle istituzioni straniere, omologhe solo in apparenza.
L’occasione per un cambiamento è stata colta sull’onda del trasferimento delle particolari competenze dalla gestione statale a quella locale. In tale situazione si voleva evitare che, a causa di tale trasferimento, la tutela del patrimonio culturale ne uscisse affievolita. Da qui la ricerca di standard comuni per il funzionamento del museo e la conservazione, fruizione e valorizzazione delle collezioni. Ci si è voluti aprire anche alla migliore prassi internazionale (AAM, Codice deontologico ICOM, etc.) adattandola alle peculiarità italiane.
Criteri e regole per definire i requisiti necessari all’esistenza del museo e al suo funzionamento. Fu convenuto che tali criteri dovessero trovare applicazione non solo in caso di trasferimento di competenze ma anche nella gestione di ogni museo. Standard ineludibili (conservazione, sicurezza, prevenzione del rischio) e c.d. linee guida (promozione, valorizzazione, etc.).
La normativa non è però sufficiente a produrre il cambiamento sperato.
Gli standard sono stati considerati sin dall’inizio una grande opportunità per costruire una cultura della gestione museale in Italia, un salto di qualità da porre in essere attraverso regole comprese e condivise.
Più che un’innovazione una rivoluzione. Lo scenario culturale è maturo per questo. Difettano però i mezzi.
In altre realtà internazionali si è arrivati a codificare metodologie già in essere da molto tempo, per uniformarle.
Nel caso italiano è calato dall’alto un sistema di criteri che, per quanto conosciuto e approfondito, era in massima parte estraneo al nostro concreto sistema museale. Ben venga, ma senza adeguate risorse per sostenere il processo di innovazione e adeguamento manca la concreta possibilità di applicazione, non la volontà.
Come possono molti musei raggiungere obiettivi a carattere strutturale, comportanti rilevanti investimenti finanziari, quando hanno budgets risibili rispetto a istituzioni similari estere? Stessa cosa dicasi per standard inerenti una maggiore qualificazione del personale: come attuarli attraverso organici cronicamente sottodimensionati che già fanno miracoli?
Se la migliore esperienza maturata in decenni dalle istituzioni straniere viene imposta nel medio-breve periodo ai nostri musei attraverso una normativa prescrittiva e senza un’adeguata politica di sostegno, il sistema degli standard è destinato a diventare inapplicabile.
Tornare indietro non si deve. Occorre ricercare il giusto equilibrio. Raggiungere quanto meno requisiti minimi e avviare un percorso di crescita qualitativa nel medio periodo attraverso comportamenti condivisi. Gli standard devono essere realistici.

S.S.M. Recenti studi socio-economici hanno dimostrato l’inesistenza di distretti culturali calati dall’alto secondo logiche di governance top down. È pur vero che solamente politiche pubbliche lungimiranti e attente possono dar vita a una gestione culturale efficace e generativa. Compito della P.A. è quindi indirizzare le politiche culturali astenendosi da un’azione invasiva. Come si può garantire tale equilibrio e quali sono, a suo parere, le politiche da intraprendere per rendere nuovamente dinamico il settore?
A.P. È opportuno che il distretto culturale nasca dalla realtà dei fatti e che non sia disegnato con la matita dall’alto. Certo, è necessaria una politica di incentivazione alla gestione associata ma senza l’imposizione di assetti organizzativi predeterminati. Partendo da reti informali e di adesione volontaria, la successiva esperienza di cooperazione indicherà l’opportunità o meno di stabilizzare la rete. Le esperienze positive ben potranno costituire un modello organizzativo di riferimento per ulteriori nuove iniziative. La stabilizzazione di una collaborazione nel settore culturale idonea a diventare “distretto” richiede la presenza di almeno tre elementi. In primo luogo idonee competenze istituzionali per la complessità degli interventi amministrativi da porre in essere e per la pluralità di organismi pubblici coinvolti tra Stato e autonomie. In secondo luogo un’adeguata dotazione finanziaria, anche per la via del co-finanziamento da parte delle pubbliche amministrazioni coinvolte, fondi di provenienza privata o di istituzioni quali le fondazioni ex bancarie. In terzo luogo occorrono opportune conoscenze tecniche, anche relative all’attività di organizzazione, gestione e fruizione dell’iniziativa culturale. Per cercare una soluzione di continuità col passato, in relazione a troppe contribuzioni finanziarie sprecate senza risultati concreti, meglio sarebbe non finanziare la costituzione del distretto ma finanziare invece i successivi progetti ben strutturati che il distretto dovesse porre in essere.

S.S.M. Devoluzione, autonomie locali, trasferimento di poteri. Il “piccolo” conosce le proprie possibilità (punti di forza e punti di debolezza), il territorio nel quale opera, gli stakeholders e le urgenze. Il “grande” ha una visione d’insieme più ampia. In un quadro legislativo in trasformazione, quale modello auspica per il nostro Paese?
A.P. L’applicazione di standard museali realistici, il sostegno a distretti culturali creati sulla base di sinergie e collaborazioni concrete e non imposte dall’alto.
Per le regioni la “devolution” sui beni culturali può essere senz’altro un’opportunità, che deve ovviamente riflettersi in un’opportunità per la comunità dei cittadini. Deve essere gestita nel dovuto modo e deve essere l’occasione per migliorarsi.
Diverse regioni quali Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Toscana hanno sicuramente le capacità per gestire al meglio una devoluzione nell’ambito dei beni culturali. Altre, invece, potrebbero avere difficoltà nell’approntare una macchina organizzativa idonea. Il rischio è quello di avere due “Italie” dei beni culturali o, peggio, venti. Per scongiurare questo pericolo è importante porre in essere elaborazioni comuni tra autonomie e Stato, un quadro condiviso. Visto che lo Stato gestisce circa 500 strutture museali sparse sul territorio nazionale, caso unico in Europa, è importante che questa rete sia comunque integrata e coordinata con la gestione regionale e con i sistemi locali, con veri e propri piani di valorizzazione “cooperativa”.
Un uso efficiente delle risorse e un coinvolgimento equilibrato dei privati potrebbero portare a migliorare l’azione amministrativa e, di conseguenza, a migliorare la fruibilità dei beni culturali sul territorio.
Non bisogna dimenticare che in una situazione di devoluzione, la Regione non diventa un semplice gestore di beni culturali, ma arriva praticamente ad assumere una responsabilità di “governo” al riguardo.

S.S.M. Qualche anno fa, tra il serio e il faceto, si parlò di vendere il Colosseo e le spiagge; oggi il comune di Torino promette di aumentare l’autonomia delle fondazioni che gestiscono alcuni tra i palazzi storici della città, tra i quali il Teatro Regio, croce e delizia della capitale sabauda. Gli sketch anni Sessanta di Totò non fanno più sorridere e,tra chi dice che i gioielli di famiglia non si toccano e chi vuole alienare anche parchi e giardini, la confusione e il panico regnano sovrane. Eventuali nuove forme di gestione quali rischi presenterebbero? E quali vantaggi?
A.P. Personalmente vedo più rischi che concreti vantaggi, non per il sostegno dei privati in sè, ma per come questo può essere oggi concepito. Apprezzo molto l’attività di tante fondazioni che nel Paese aiutano concretamente. Occorre però fare ordine. Il patrimonio culturale dello Stato e degli enti locali va conservato e tutelato e ne deve essere permessa la migliore fruizione. Questa complessa attività deve fare i conti con la scarsità di risorse, che rende problematica la gestione. La soluzione è da ricercarsi nel migliore sostegno, non nello scambio economico. Sono contrario a ipotesi di c.d. “deacessioning”. Sono contrario all’ingresso dei privati nel sistema dell’arte pubblica. Sono proprio diversi gli scopi. La carenza di mezzi può imporre alle amministrazioni di ricercare l’aiuto esterno, che mai deve tradursi in condivisione o cessione. Ben vengano gli atti di liberalità. Nulla in contrario anche a intitolare sale o strutture alla memoria dei benefattori che ne possono aver permesso la costruzione, la ristrutturazione o che le hanno riempite di opere d’arte donate. Nulla in contrario anche quando lo spirito di liberalità è sostituito dall’interesse economico di visibilità e sponsorizzazione da parte dell’impresa privata che permette o contribuisce alla realizzazione di una mostra, alla stampa di cataloghi, al restauro di luoghi e di opere. Anche il comodato d’arte da parte dei privati al pubblico è un valido strumento. Diversamente non sarebbe corretto nei confronti della comunità permettere a privati di realizzare un lucro diretto dall’arte pubblica, lucro ancor più appetibile se l’utilizzo avviene a costi bassissimi. L’arte è anche commercio e industria, non l’arte pubblica.

S.S.M. Una domanda che non ci stancheremo mai di fare: come evitare che l’arte contemporanea sia il fanalino di coda del sistema culturale italiano? Mi spiego meglio: la tradizione italiana, pur nell’applicazione delle normative, ha a lungo insistito sulla funzione conservativa. Per quanto necessaria e legittima, tale istanza ha tuttavia impedito il pieno sviluppo del contemporaneo. Negli ultimi anni, al contrario, si assiste a un’inversione di tendenza che, attraverso la proliferazione di fiere e la nascita di nuovi musei, vuole inseguire la scia di una cometa di presunta ricchezza. Come aggiustare il tiro tra due istanze tanto lontane? L’arte contemporanea conta solo nel mercato?
A.P. Il sistema culturale italiano deve essere riportato nel più corretto assetto che alla conservazione e tutela affianca con importanza paritaria la fruizione e l’attività artistica. Questo deve comportare un maggiore sostegno alla creatività del presente - soprattutto giovanile - e una maggiore promozione dell’arte contemporanea italiana all’estero. Le raccolte pubbliche di arte contemporanea devono essere incrementate e ben catalogate. In ogni caso, la stessa attività di conservazione e restauro non può non avere a oggetto anche l’arte contemporanea e le sue specificità.

Lo stato delle cose. Intervista a Cristian Valsecchi

(articolo pubblicato su Artkey n°8 - gennaio/febbraio 2009)

Cristian Valsecchi è professore a contratto di Economia dei beni e delle attività culturali e di Istituzioni di Economia presso l’Università degli Studi di Bergamo. È attualmente Segretario Generale di AMACI - Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani, di cui ha curato la costituzione, e Project Manager del Mart - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto.

“Perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversari, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità delli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza”.
Niccolò Machiavelli, “Il principe”[1]

Il titolo di questo articolo è un omaggio all’omonimo film di Win Wenders nel quale un regista cinematografico si ritrova senza capitale monetario e intellettuale, ossia senza pellicola e senza idee.La situazione diventa metafora di una crisi trasversale che oggi ci pare di poter ritrovare nell’analisi de “lo stato delle cose” del sistema della cultura italiana.
Al di là della congiunture economico-finanziare, sembra di poter ravvisare una vera e propria insufficienza di volontà. La materia - da un punto di vista empirico-giuridico ma anche pratico - è sballottata tra continue quanto improduttive riforme, riassetti disorganici che anziché risistemare il settore lo rendono claudicante. La cultura italiana viene catapultata nell’arena politica a uso e consumo della maggioranza di turno, nonostante l’autonomia garantita dalla stessa Costituzione (artt. 9 e 33 Cost.). Senza un vero e proprio frame giuridico, la cultura di un paese è destinata ad appassire. Ciò che serve oggi, più che una sterile politica culturale, è una politica della cultura, nell’accezione bobbiana della fraseologia.[2]
“Uomini di cultura” ai vertici del ministero a essa preposta non se ne sono visti poi molti: eccezion fatta per Antonio Paolucci - che fu ministro per un anno e mezzo (gennaio 1994 - maggio 1996) -, le restanti nomine hanno preferito i politici ai tecnici, privilegiando l’arte del governo all’arte del sapere, denigrando - come direbbe Theodor Adorno - il personaggio dell’esperto. Spesso ci si dimentica di quanto sia fondamentale il ruolo dell’organizzazione politica che regge la società civile nel determinare una programmazione di eventi di qualità. Alla cultura vengono negate quelle libertà di azione e indipendenza che costituiscono la sua forza persuasiva, il suo essere veicolo di comunicazione sociale e diffusione di idee. Allo stesso modo si tralascia di sottolineare quanto i musei e i centri di produzione artistica debbano essere fucine del pensiero e laboratori della creatività. Troppo lentamente si va affermando quell’idea di museo quale luogo di studio al servizio della collettività e della formazione pubblica. Dal museo di arte contemporanea si deve passare al museo della contemporaneità: istituzione dinamica nella quale i fermenti intellettuali possano trovare promozione e valorizzazione al fine di massimizzare l’utilità sociale. Considerato che siamo in ritardo ma non possiamo permetterci di agire frettolosamente, e che c’è una totale assenza di politiche lungimiranti che superino l’idea di mandato a favore di un’idea di progetto; alla luce delle crisi che trasversalmente interessano la contemporaneità, su cosa possiamo puntare? Le soluzioni sono da ricercarsi in un omogeneo disegno delle politiche pubbliche - in applicazione a quanto previsto e invocato da più parti - e in favore di un nuovo ruolo delle istituzioni museali, caratterizzate da progetti di lungo periodo e formazione di qualità. Per accendere il dibattito, abbiamo deciso di porre alcune domande a due osservatori privilegiati, profondi conoscitori del sistema nel quale ci muoviamo: Cristian Valsecchi e Andrea Pizzi.

[1] Niccolò Machiavelli, “Il Principe e pagine dei Discorsi e delle Istorie”, a cura di Luigi Russo, Sansoni, Firenze 1967; Capitolo VI “De principatibus novis qui armis propriis et virtute acquiruntur”.
[2] “Deve essere chiaro che contro la politica culturale, che è la politica fatta dagli uomini politici, la politica della cultura promuove l’esigenza antitetica di una politica fatta dagli uomini di cultura per i fini stessi della cultura”. Norberto Bobbio, Politica e cultura, Einaudi.


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Susanna Sara Mandice: La Pubblica Amministrazione si ritira lentamente dalla scena e lo spazio viene parzialmente riempito da nuovi soggetti privati. AMACI promuove l’iniziativa “Imprese con l’Arte Contemporanea”. Quali sono gli obiettivi di questo progetto? Cristian Valsecchi: Sono sempre più numerose le aziende consapevoli del fatto che, di fronte allo scenario competitivo globale, l’impresa deve saper guardare alla cultura della contemporaneità come a una componente essenziale della propria strategia. Privilegiare questa visione significa offrire un’opportunità in più al nostro sistema economico per valorizzare la principale risorsa che esso ha nell’affrontare le nuove sfide competitive: il capitale umano. La capacità di innovazione e sviluppo di un’impresa, oggi, non può infatti prescindere dal contesto in cui essa opera - che deve essere socialmente e culturalmente avanzato - e dalla possibilità di contare, al proprio interno, su risorse umane capaci di stimolare la nascita di nuove idee e progetti, senza ragionare secondo sistemi e categorie precostituiti. “Imprese con l’arte contemporanea” muove da questi presupposti e nasce con l’obiettivo di raccogliere intorno ad AMACI tutte quelle imprese che vedono nell’arte del nostro tempo uno strumento capace di orientare al futuro il nostro Paese e di contribuire al suo sviluppo economico e sociale. Ci proponiamo, più in particolare, la creazione di un tavolo comune che porti le imprese a uno scambio di conoscenze, esperienze e idee sul tema, e che si faccia promotore anche presso altre aziende di questa nuova visione del rapporto tra arte e impresa.

S.S.M. Il Ministero annuncia la nascita della Direzione Generale per la valorizzazione del patrimonio culturale. Al di là delle polemiche sull’eventuale dirigente, rimangono aperte alcune questioni sulle quali potremmo provare a far luce. La nuova Direzione diventerebbe un organo centrale, eppure da più parti si invoca un allargamento dei poteri periferici. Cosa ne pensa? C.V. Parto dal presupposto che il museo ha in primo luogo una funzione di sviluppo culturale e sociale del territorio a cui appartiene e di cui deve farsi primo interprete delle esigenze e delle necessità. Sono dunque dell’idea che l’istituzione di una Direzione Generale per la valorizzazione del patrimonio culturale rischi di riproporre un modello centralistico in aperta contraddizione con la tendenza in atto a favorire politiche di decentramento nel rispetto del Principio di Sussidiarietà. Prima ancora di una riorganizzazione complessiva del Ministero, avrei dunque ritenuto più opportuna una “riforma mirata” che, partendo dal basso, privilegiasse l’individuazione di meccanismi idonei a garantire una maggiore autonomia e semplificazione funzionale e operativa, quando non addirittura giuridica, degli istituti periferici, individuando al tempo stesso meccanismi di responsabilizzazione dei funzionari preposti alla direzione di tali istituti. Temo anche che la decisione di procedere all’ennesima riorganizzazione della struttura del Ministero possa non giovare alla continuità e dunque all’efficacia della sua azione, frustrando l’operato dei funzionari ministeriali, costretti a rincorrere continue riorganizzazioni interne anziché concentrarsi unicamente e concretamente sui problemi e le necessità che caratterizzano il sistema della cultura in Italia. Mi permetto infine un fuori campo, ribadendo la preoccupazione già manifestata da AMACI rispetto alla decisione di sopprimere la PARC attribuendo le relative funzioni a una Direzione Generale con competenze allargate. In un Paese come il nostro, caratterizzato da uno sviluppo soltanto recente delle sue istituzioni, è richiesto a mio avviso un preciso impegno dello Stato nella definizione delle politiche culturali legate alla contemporaneità. Cosa che può essere garantita solo attraverso una Direzione Generale dedicata all’arte e all’architettura contemporanee. Il rischio della fusione in atto è dunque quello di far dipendere il sostegno della contemporaneità dall’interesse soggettivo dei funzionari incaricati a dirigere la nuova DG.

S.S.M. Diversi musei di arte contemporanea si trovano in un momento di transizione: cambiano i vertici del Castello Rivoli, si cercano dirigenti per i nuovi musei romani e per la GAM di Torino. Il dibattito si scinde e si semplifica in una domanda: manager o storici? Credo, però, che entrambi gli approcci esulino dallo studio della realtà e propongano un vero e proprio implemento di modelli altri, trascurando le peculiarità del museo italiano. Il direttore di un museo non può essere un tuttologo, deve quindi sapersi circondare di personale qualificato che supporti la sua gestione introducendo anche istanze contraddittorie. Che tipo di figure servono ai musei della contemporaneità? C.V. Purtroppo il dibattito sui musei d’arte contemporanea in Italia non è così “avanzato”. I nostri musei vivono ancora in una dimensione di provvisorietà preoccupante. La situazione di stallo che caratterizza molti di essi ne è una dimostrazione. Le direzioni vacanti e le tardive nomine dei direttori esprimono una situazione di disinteresse da parte delle amministrazioni locali verso il settore dell’arte, in particolare di quella contemporanea, con la conseguenza di determinare dei punti di discontinuità nella programmazione culturale dei musei tale da compromettere il loro posizionamento nel circuito internazionale, da un lato, e il servizio che essi sono chiamati a erogare, dall’altro. La programmazione e la realizzazione di un piano pluriennale di attività culturali richiedono mesi di lavoro. Non tenere conto di ciò significa esporre il museo a un’interruzione forzata della propria attività culturale. Proviamo a chiederci cosa succederebbe se i cambi di management delle aziende fossero gestiti con questa disinvoltura. Ciò premesso, concordo circa il fatto che le strutture museali debbano ormai aprire le proprie porte a nuove professionalità. Sono tra coloro che ritengono che il direttore di un museo debba saper combinare conoscenze specifiche e approfondite della storia dell’arte a capacità strategiche e manageriali. Dopotutto, le numerose esperienze internazionali dimostrano come le une non escludano le altre. Tuttavia, per quanto capace da un punto di vista gestionale, un direttore deve poter contare su uno staff al quale delegare decisioni e azioni. In particolare, la struttura organizzativa dei musei deve ormai essere integrata da figure che, accanto a quelle tradizionali, sappiano rispondere alle mutate esigenze delle istituzioni museali, a cui si richiede ormai un miglioramento della gestione dei processi organizzativi interni, dell’efficacia nell’attrazione di nuovi visitatori attraverso operazioni di marketing e di comunicazione, della cura nella gestione dei servizi di accoglienza e dei servizi aggiuntivi, e della capacità di sviluppo di risorse finanziarie attraverso operazioni di fund raising. Professionalità di cui attualmente la maggior parte dei musei è sprovvista.

S.S.M. Se spettasse a lei la scelta, chi metterebbe a capo di un ipotetico museo? C.V. Tutto dipende dalla natura dell’ipotetico museo. Tuttavia, fermo restando che cercherei di individuare un direttore che sapesse coniugare una riconosciuta competenza scientifica a capacità gestionali e organizzative, punterei su una figura che sapesse rispondere a due requisiti in particolare. Da un lato dovrebbe saper fare della leadership un punto forte della propria gestione. Per consolidare il funzionamento interno di un museo, il direttore deve saper motivare e coinvolgere il personale, diventandone un costante punto di riferimento. Rimango della convinzione che la forza di un’istituzione museale stia nella valorizzazione delle sue risorse umane. Dall’altro il candidato direttore dovrebbe condividere l’obiettivo di promuovere una politica di integrazione con il territorio, con l’ambizione di far diventare il museo un punto di riferimento per lo sviluppo socio-culturale della collettività. Infine, in una società come la nostra che fatica a offrire nuove opportunità ai giovani talenti, punterei su un giovane che avesse nel frattempo maturato esperienze e/o rapporti di livello internazionale.

S.S.M. Rimanendo in tema di personale e risorse umane, la situazione della maggior parte dei nostri musei è caratterizzata da vuoti strutturali di organico, a diversi livelli di responsabilità. La scarsità di risorse a vantaggio di mobilità e formazione rende il personale sempre meno competitivo e poco eclettico. In mancanza di fondi, si riduce il capitale umano. Perché questa miopia? Come e quando un’inversione di tendenza? C.V. La scarsità delle risorse finanziarie dei nostri musei, dovuta in primo luogo ai ridotti investimenti che le amministrazioni pubbliche dedicano al loro sviluppo contrariamente al resto d’Europa, non può essere sottovalutata e rimane una motivazione determinante di tale scenario. Spesso ci lamentiamo dei minori flussi di visitatori che i musei italiani sono in grado di generare rispetto a quelli stranieri. Trascuriamo tuttavia di considerare le ragioni che determinano queste differenze. Per rimanere in un contesto istituzionale simile al nostro, ovvero alla Francia, musei come il Louvre o il Centre Pompidou beneficiano di investimenti statali annuali rispettivamente pari a 100 e a 75 milioni di euro, potendo così contare anche su dotazioni organiche di rilievo, rispettivamente pari a duemila e a mille dipendenti. Numeri da capogiro rispetto all’impegno del nostro Paese nel settore museale. Mi auguro che, in funzione dell’apertura del MAXXI, il nostro Ministro vorrà seguire l’esempio dello Stato francese e non quello dei Ministri che lo hanno preceduto e che hanno costretto le nostre istituzioni a un agonizzante stato di sopravvivenza. Non senza retorica, i nostri beni culturali vengono sovente paragonati ai giacimenti petroliferi, senza considerare che, una volta individuato un giacimento, perché questo sia messo a reddito occorre poter estrarre il petrolio, lavorarlo e distribuirlo, e, per farlo, sono necessari cospicui investimenti da parte della proprietà. Questo aspetto della valorizzazione economica dei beni culturali, che negli altri paesi europei sembra chiaro, in Italia sfugge, e ci si illude pensando che la questione debba essere risolta esclusivamente sul piano del miglioramento gestionale e della riduzione dei finanziamenti dei fondi pubblici a favore di quelli privati.
I ridotti finanziamenti pubblici non possono tuttavia costituire un alibi per i nostri musei. I nostri direttori devono saper guidare un percorso di crescita del museo lungo una scala temporale di medio/lungo termine, riequilibrando il rapporto tra investimento in risorse umane e in attività culturali, che vede spesso le prime soccombere alle seconde, puntando sul potenziamento di quelle figure professionali necessarie per lo sviluppo di risorse proprie.
S.S.M. Si parla sempre più spesso di misurazione del valore delle istituzioni culturali, necessario anche per ottenere finanziamenti. Ai termini numerici dovrebbero però affiancarsi valutazioni qualitative. Come possiamo misurare la qualità? Che cosa può produrre un museo oltre al numero dei biglietti staccati e come possiamo misurarlo? C.V. Trovo difficile misurare la qualità del lavoro promosso dalle istituzioni culturali, se non attraverso l’analisi del grado di riconoscimento del museo da parte della comunità scientifica e museale, nazionale e internazionale. La visibilità che ne deriva è già un valore aggiunto, ulteriore e non secondario, rispetto al numero di visitatori che frequentano il museo. A questo si aggiunge il fatto, come ho riferito poco fa, che l’attività che un museo d’arte contemporanea svolge può avere dei riflessi importanti sul piano dello sviluppo economico e sociale locale. Non solo e non tanto per l’indotto turistico che esso genera attraverso la propria attività espositiva e culturale, e che nel caso della maggior parte dei musei d’arte contemporanea rimane tutto sommato limitato, quanto piuttosto per il valore immateriale che esso genera orientando al nuovo la comunità dei fruitori. L’analisi dell’integrazione del museo con il suo territorio, associata a specifiche analisi sociologiche della comunità e dei visitatori e agli indicatori dello sviluppo territoriale possono restituirci dati utili a verificare l’effettivo ruolo giocato dal museo in questo processo.