Prima mostra per il nuovo Museion

Xavier Le Roy Self Unfinished, 1998 By and with: Xavier Le Roy In collaborazione con: Laurent Goldring Musica: Diana Ross Produzione: in situ productions e Le Kwatt© Katrin Schoof

Il 24 maggio ha avuto luogo a Bolzano la tanto attesa inaugurazione della nuova sede di Museion, che avevamo con entusiasmo visitato in occasione della preview di dicembre.
Un successo che ha superato ogni aspettativa: numerosi i critici, i giornalisti, i rappresentanti istituzionali e soprattutto i cittadini. Da lodare la comunicazione capillare, il lavoro dell’ufficio stampa e i contatti istituzionali che hanno supportato l’evento rendendolo possibile.
Durante il primo week-end di apertura si sono calcolate 6.500 presenze il primo giorno e oltre 3.000 il secondo. Anche gli appuntamenti serali hanno ottenuto un ampio riscontro di pubblico, in molti sono accorsi per vedere l’opera-performance realizzata da Anri Sala per la facciata del museo.
La struttura architettonica, versatile e duttile nonostante il rigore formale, rinnova il legame tra Museion e il suo territorio, fisicamente completato con la costruzione delle passerelle oscillanti, una pedonale e l’altra ciclabile, che collegano le due sponde dell’Isarco e le due zone della città: la zona vecchia – e centrale – e la zona nuova.
Per l’inaugurazione è stata concepita “Sguardo periferico e corpo collettivo” una mostra curata dalla direttrice, Corinne Diserens. Il titolo risulta di per sé criptico, ambiguo e ci viene il dubbio che si tratti di uno dei consueti titoli altisonanti, tanto cari agli organizzatori di mostre pensate per mostrare tutto e niente. Fiduciosi che Museion sappia evitare cadute di stile di questo tipo, ci apprestiamo a visitare l’esposizione con l’animo sereno e ottimista. Ma, ahinoi, la prima intuizione si rivela esatta.
Museion è allestito con opere dall’inestimabile valore, veri capolavori del Novecento e nuove tendenze artistiche, artisti italiani e stranieri… pare non manchi nulla. Basta dare un’occhiata alla lista delle opere per rendersi conto che la possibilità che ci viene offerta è splendida e raggiunge l’obiettivo di offrire in una volta sola un numero elevato di lavori.
Eppure la quantità non basta. Si tratta di un errore sul quale si può sorvolare quando commesso da un’istituzione inesperta alle prime armi, bisognosa di visibilità. Considerata l’esperienza ventennale di Museion, i finanziamenti stanziati, le competenze – in termini di risorse umane – coinvolte, ritengo sia lecito aspettarsi qualcosa di più. L’esposizione risulta un pout-pourri di opere che, per quanto valide, non comunicano tra loro. Il filo rosso che dovrebbe snodarsi nel percorso di fruizione pare davvero stiracchiato, rendendo la mostra piacevole dal punto di vista estetico e storico-artistico, ma allo stesso tempo completamente mancante di una struttura didattica.
Il comunicato stampa recita: “Sguardo periferico e corpo collettivo discute la questione dei corpi collettivi nell’arte visiva contemporanea, in considerazione della sua stretta relazione con l’architettura e la performance, e in modo particolare con la danza. La mostra analizza come le proposte artistiche più recenti siano state influenzate dalle Avanguardie Americane del Secondo Dopoguerra, che a loro volta avevano ripreso le sperimentazioni sviluppate all’inizio del XX secolo tra la Germania, la Polonia, la Russia e altri paesi. In questa prospettiva, l’esposizione e il relativo catalogo presentano una raccolta di opere, film, performance, documenti e testi da Meyerhold fino all’arte contemporanea, esplorando la concezione e l’utilizzo del “corpo collettivo” come strategia critica, mediante la quale viene indagata l’eredità della nostra storia recente.”
Va da sé che c’è troppa carne al fuoco. La presunta relazione tra le opere manca del tutto, non v’è un percorso tematico, né storico, né cronologico… se decidiamo di inserire diversi elementi in un insieme dato, bisogna che questi dialoghino, è necessario che il visitatore non si smarrisca. Il museo, per sua stessa natura, non può e non deve assomigliare ad una galleria, né ad una fiera, non può ridursi a mero (per quanto sberluccicante) contenitore.
Anche la proposta di indagare le relazioni tra le diverse espressioni artistiche, per quanto nobile, non può trovare riscontro in un’esposizione che assembla troppi linguaggi, risultando una babele caotica.
E purtroppo le critiche non terminano qui. Non ci si può esimere dal rilevare come, il giorno dell’inaugurazione, l’allestimento non fosse ancora completato. Durante la visita (effettuata nel tardo pomeriggio), numerosi operai ancora lavoravano alla messa in mostra delle opere; mancava gran parte delle didascalie, alcune delle quali semplicemente poggiate a terra o nelle vicinanze dell’opera relativa; cavi elettici scoperti, materiali da lavoro sparsi qua e là e un via vai frettoloso di addetti ai lavori completavano lo spettacolo di un work in progress non previsto.
Infine, last but not least, una critica al campanilismo tipico della zona. Museion si auto-proclama museo Europeo (e mai Italiano), loda la scelta della Biennale Manifesta 7 di svolgersi in Alto-Adige (dimenticandosi che metà delle sedi dell’evento si trovano in Trentino), presenta numerose opere video in lingua tedesca senza mai fornirne la traduzione e indice un premio rivolto ad artisti altoatesini. Preso atto della realtà che vede la regione trento-altotesina caratterizzarsi per la sua atipica multiculturalità, ben vengano le sinergie con la comunità locale e la promozione del territorio; sarebbe lecito, però, auspicare un sentimento sì internazionale ed Europeo, ma meno secessionista, proiettato cioè verso un netto superamento dei confini, mentali più che geografici, impegno che l’Arte da sempre ha e che sarebbe il caso che venisse perseguito anche da coloro che per e con l’Arte vogliono operare.

Nasce il Consorzio per la Valorizzazione culturale La Venaria Reale

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°5 - gugnio/luglio 2008)

Tutto è cominciato nel 1996 con la visita notturna dell’allora Ministro per i Beni Culturali Walter Veltroni alla Reggia di Venaria, residenza sabauda alle porte di Torino.
Da allora una serie di investimenti e di impegni hanno portato (non senza le consuete lungaggini che caratterizzano i progetti di questo tipo) al recupero del Palazzo e dei suoi preziosi giardini. Testimonianza del barocco torinese, la Reggia è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Riaperta di recente ai numerosi visitatori che, entusiasti, si sono recati in visita, è sede di spettacoli teatrali, concerti ed eventi espositivi tra i quali la fa da padrone l’allestimento scenografico, costituito da inserti multimediali, realizzato da Peter Greenaway.
A convalida dell’impegno della Pubblica Amministrazione, lo scorso 11 aprile, presso la sede del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, è stato sottoscritto un accordo che istituisce il “Consorzio per la valorizzazione culturale La Venaria Reale”.
Firmatari: Giuseppe Proietti -Segretario Generale, per il MiBAC- ; Gianni Oliva -Assessore regionale alla Cultura; Nicola Pollari - Sindaco di Venaria Reale; Carlo Calmieri - vice Presidente della Compagnia di San Paolo e Presidente della Fondazione per l'Arte della Compagnia di San Paolo.
L’ente avrà la funzione di gestire la struttura e a tal scopo è stato stanziato un budget annuale di 14 milioni di euro, provenienti dal settore pubblico e privato. Precisamente: il Consorzio disporrà di 4 milioni di euro annuali concessi dalla Regione Piemonte, 2 milioni proverranno dal Ministero, altrettanti dalla Compagnia di San Paolo, partner del progetto, un altro milione dalla Fondazione dell’arte della stessa Compagnia e infine si prevede un introito di oltre 5 milioni di euro provenienti da biglietterie, merchandising e affitto delle sale. Con questo accordo, la Fondazione ex bancaria diventa uno dei soggetti del parternariato pubblico-privato che amministrerà la Reggia, a conferma di quanto, nel settore culturale, siano indispensabili l’apporto dei privati e le sinergie tra i diversi attori. In questo caso i soggetti pubblici dovrebbero erogare le spese fisse, mentre alla Compagnia spetterà il compito di finanziare gli eventi temporanei. I 5 milioni di euro di introito che ci si aspetta la Reggia possa generare, sono stati stimati a seguito di valutazioni sugli andamenti del settore, secondo gli ottimisti sono persino destinati ad aumentare. Rimangono però, come sempre in questi casi, forti dubbi, considerato il periodo di visibilità temporanea di cui la città di Torino ha goduto, l’attuale momento di recessione economica e soprattutto accreditato che solitamente chi riferisce queste stime ha interessi ben precisi da salvaguardare.Giuridicamente la forma del consorzio si è resa necessaria per conferire al progetto certezza e autonomia ed è stata preferita all’alternativa della fondazione perché ritenuta più agile. In realtà, un ente così costituito dà ampio margine alle gestioni in outsurcing di alcuni servizi che possono essere agevolmente appaltati, secondo una consuetudine via via più comune che rileva come l’amministrazione centrale voglia evitare di assumersi direttamente determinate responsabilità.Il consorzio si avvarrà di un CdA composto da un membro per ciascun soggetto finanziatore e due per lo Stato, il presidente sarà il delegato del Ministero e la nomina del direttore spetterà alla Regione, che per questo primo periodo ha confermato Alberto Vanelli, già di fatto in carica, avendo seguito tutte le fasi del programma fino ad ora. Ovviamente ogni soggetto finanziatore pretende di avere un suo delegato a garanzia di impegno e trasparenza con il risultato che, come dichiarato alla stampa dall’Assessore Regionale Gianni Oliva, il consorzio sarà “una struttura leggera, con assunzione di teste pensanti più che di operativi” Ci fa quasi sorridere l’idea, al pensiero di tanti servizi appaltati con conseguente precarietà che il settore dei Beni Culturali ultimamente produce. Ci auguriamo che tante teste pensanti sappiano davvero ben pensare…

R. Rauschenberg. La pittura è in rapporto sia con l'arte che con la vita.

"La pittura è in rapporto sia con l'arte che con la vita. [...] Io tento di operare nello spazio che c'è tra le due" R. Rauschenberg

Si è spento lo scorso 12 maggio Milton Ernst Rauschenberg, conosciuto come Robert Rauschenberg, sicuramente uno dei maggiori protagonisti della storia dell'arte del Novecento. Ottantaduenne, colpito da ictus qualche anno fa, aveva recentemente ripreso il suo lavoro. Nato in Texas, esempio del melting-pop di cui la sua arte è pregna, vantava origini tedesche, olandesi, svedesi nonché cherokee. Cominciò a dipingere per diletto solo nel 1944, dopo una breve carriera nell'esercito americano, nel quale ricoprì incarichi amministrativi, essendosi rifiutato di imbracciare le armi. I sussidi dell'esercito gli consentirono però di frequentare gli studi artistici negli States e a Parigi, alla fine degli anni Quaranta. Dal metodo pittorico ortodosso si discostò ben presto, senza però mai abbandonarlo ma anzi completandolo con elementi materici e oggetti svariati: battezzò le opere così prodotte con il nome di combing-paintings o semplicemente combines. Considerato tra i fondatori della Pop-art, insieme all'amico Jasper Jones, la superò; di lui si dice che fu neodada ed espressionista astratto, ma riteniamo che non sia corretto incasellare la figura di Rauschenberg in un filone determinato, poiché mai aderì a correnti precostituite e seppe destreggiarsi spaziando da un indirizzo artistico all'altro. Oltre alla pittura; la fotografia, il collage, il transfer e la serigrafia furono le sue passioni. Artista prolifico, utilizzò mezzi espressivi, materiali e tecniche eterogenei. La tensione verso la sperimentazione e l'innovazione creativa, lo hanno reso uno dei ricercatori e iniziatori degli inediti linguaggi artistici che hanno caratterizzato l'arte contemporanea. Nel 1964 la Biennale di Venezia gli assegnò il premio per la pittura, riconoscimento che gli valse la consacrazione nell'olimpo artistico dell'arte contemporanea. Nel 1976 fu scelto per rappresentare le conquiste artistiche degli Stati Uniti d'America nelle celebrazioni del bicentenario dell'indipendenza nazionale. Con il suo paese ebbe sempre un legame molto intenso: fu addirittura il primo artista vivente a cui il periodico "Time" dedicò una copertina. Le sue opere si ispiravano al tessuto stesso della vita americana, riflettevano i sogni, le aspirazioni e i limiti del modello U.S.A. I critici ritennero che fu anche grazie a lui che l'arte americana si riscattò e smise di essere gregaria rispetto all'arte europea. Ciononostante, Rauschenberg non si ritenne un rappresentante dell'American Exceptionalism, ma si autodefinì ambasciatore e rappresentante della condizione umana. Le tematiche sociali furono preponderanti nella sua poetica artistica: filantropo e grande mediatore si fece promotore del ROCI - Rauschenberg Overseas Culture Interchange, un programma per incentivare lo scambio culturale tra nazioni. Nel 1990 fondò la Robert Rauschenberg Foundation, un'organizzazione no-profit sui temi a lui cari: ricerca medica, educazione, ambiente, fame nel mondo e, ovviamente, relazioni tra diverse forme d'arte. Passioni e amicizie lo avvicinarono anche al mondo della letteratura, che considerò imprescindibile espressione dell'essere umano. Viaggiò a lungo, soprattutto dopo gli anni Settanta, alla ricerca di idee e materiali nuovi per le sue creazioni, ma anche per una crescita personale e sociale che sempre lo contraddistinse. Ottimista, conosciuto per il suo spiccato senso dell'umorismo, fu un vivace conoscitore del secolo scorso e ispiratore di correnti artistiche che a lui devono numerose intuizioni.

Roxanne Lowit e Giuseppe Varchetta, Collezione Maramotti - Ex stabilimenti Max Mara

Pattern Room è un titolo evocativo… provo a immaginare come potrebbe essere una mostra così chiamata e mi viene in mente una stanza senza pareti, uno spazio aperto eppure definito, nel quale i confini risultano mutevoli. E così vogliono essere gli spazi della Collezione Maramotti a Reggio Emilia: discontinui ed eclettici, dove l’arte soavemente carezza e stimola il visitatore. Ex stabilimento industriale dedicato alla creazione di collezioni di moda, ha di recente cambiato destinazione, rimanendo però legato alla produzione del bello e a una elegante ricerca estetica.
Achille Maramotti, industriale raffinato, pose le basi per quella che adesso è la collezione che porta il suo nome. Negli spazi di via Fratelli Cervi, la collezione viene esposta al pubblico, ormai da qualche mese. L’ingresso è gratuito, bisogna semplicemente prenotare per aver accesso alla selezione di opere messe a disposizione di “conoscitori e interessati” come fu disposto dal suo fondatore.
Di tanto in tanto, poi, vengono organizzati eventi temporanei. E’ il caso di Pattern Room, che ha inaugurato a fine aprile e che resterà aperta fino al 25 maggio.
Due gli artisti convocati, uno il medium scelto e innumerevoli i punti di vista.
Roxanne Lowit e Giuseppe Varchetta sono entrambi fotografi e qui propongono una serie di scatti che documentano l’inaugurazione della Collezione. Il cardine attorno a cui far ruotare il progetto è “la relazione”, tema tanto caro a Varchetta che vi si dedica non solo da fotografo, essendo prima di tutto psicologo. La sua professione e la sua passione lo hanno spinto negli ultimi anni a unirsi alla schiera di epistemologi della complessità che indagano le dinamiche relazionali (scientifiche e sociali) che naturalmente si sviluppano dalla creazione artistica.
Senza provenire da un ambiente accademico, Roxanne Lowit ha ugualmente analizzato le relazioni, occhio discreto eppur presente, in momenti metropolitani che l’hanno resa celebre e che le hanno consentito di esporre in alcuni tra i più importanti musei del mondo.
In Pattern Room le connessioni relazionali sono infinite: le fotografie indugiano sulle relazioni tra le diverse opere, tra ogni opera e lo spazio, tra l’insieme delle opere e il luogo e così via. E poi, un livello più in su (o più in giù?) la relazione tra i fruitori e le opere, tra i diversi visitatori, tra questi e lo spazio… la confusione ordinata che ne scaturisce dà quasi le vertigini. E attraverso il lavoro di Lowit e Varchetta (essi stessi in relazione con tutti gli altri soggetti) i cerchi concentrici paiono infiniti: noi stessi entriamo in queste dinamiche relazionali.
Le fotografie in mostra sono state a loro volta in relazione con il momento che ritraggono e sono oggi in relazione con noi; medium per eccellenza si pongono su di un metalivello che destruttura e allo stesso tempo struttura l’esperienza cognitiva.
Più eteree quelle di Varchetta, che predilige il bianco e nero, paiono voler sottolineare il contatto quasi fisico che si instaura tra lo spettatore e l’opera, in una fruizione concreta e densa.
Diversamente i lavori di Lowit ricercano le contiguità tra i diversi interlocutori, artisti e visitatori, i quali si intrattengono in momenti sociali che sembrano svilupparsi in una nicchia ecologica estetica.
A proporre una riflessione sul sistema di relazioni è anche il testo critico che accompagna la mostra, a cura di Marco Belpoliti.
L’esposizione si inserisce perfettamente della manifestazione cittadina Fotografia Europea, giunta alla terza edizione, il cui tema è quello del “corpo nel suo aspetto multisensoriale”.

DAK’ART. L’Africa oltre lo Specchio

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°5 - giugno/luglio 2008)

DAK’ART: la biennale di Dakar, 9 maggio - 9 giugno 2008

Ha inaugurato il nove maggio Dak’art, la Biennale di arte contemporanea di Dakar. Giunta con successo all’ottava edizione, presenta il meglio delle produzioni artistiche africane provenienti da 17 paesi e, come ormai accade in numerose biennali, si connota per un forte impegno politico. Prima biennale istituita dopo la fine dell’apartheid, è oggi affiancata dalla Biennale di Bamako, capitale del Mali, e dalla emergente Triennale di Luanda (Angola). Inoltre alcune neonate riviste d’avanguardia contribuiscono a rafforzare l’identità artistica di un Continente in crescita non solo economica. Le aree emergenti del nostro pianeta promuovono lo sviluppo dell’arte contemporanea per farsi conoscere ma soprattutto per ri-conoscersi, per interrogarsi e dialogare tra loro e con il resto del mondo.
Dakar si riconferma crocevia di flussi culturali e città protesa al cambiamento.
Intervengono quest’anno 35 artisti selezionati da un apposito comitato istituito presso il Segretariato Generale della Biennale.
Il tema di quest’anno è Africa: Miroir? Ossia Africa: Specchio? E intorno a questa domanda ruotano tutti gli eventi organizzati per l’occasione. Come Alice in “Attraverso lo specchio” l’Africa di Dak’art (si) riflette e impara a superare i propri limiti identitari.
L’ottava edizione, come le precedenti, si inscrive perfettamente nella logica d’affermazione di una forte identità eterogenea e proiettata oltre i confini di un continente difficile e affascinante. Dak’art rappresenta il rendez-vous degli artisti africani e dei professionisti che ricercano nella creatività africana nuova linfa per l’arte contemporanea, come già tanti artisti europei e statiunitensi nel corso del novecento.
La biennale senegalese è fortemente sostenuta dalle istituzioni locali, che ne ravvisano il valore di vivace apporto allo sviluppo e alla crescita sociale ed economica. Non si tratta solo di un appuntamento periodico, ma di un vero e proprio spazio dedicato alle riflessioni sulla contemporaneità. L’importanza di sostenere l’innovazione, il dibattito, la libera espressione e la creatività in paesi gravati da emergenze dolorose, permette anche di riproporre una serie di temi internazionali nell’agenda del mondo “occidentale”. La promozione dei propri artisti e il tema della diversità culturale divengono contributi pertinenti alla più ampia strategia mondiale della salvaguardia e dello sviluppo.
Il tema di quest’anno vuole quindi porre l’accendo sugli incontri e gli scambi culturali, e s’inscrive in quella filosofia attiva sempre più cosciente dell’urgenza di un’unità politica che accolga le diverse istanze di un continente ancora diviso e sconvolto da numerose guerre. E’ essenziale, secondo gli stessi organizzatori, divenire parte di un sistema complesso nel quale grandi apparati politici ed economici possano crescere e nel quale siano garantite la velocità della circolazione delle informazioni, il ruolo dell’economia della conoscenza e delle industrie culturali nel panorama degli scambi internazionali. Osseynou Wade, Segretario Generale di Dak’art, ha invitato i professionisti delle aziende e della creatività a condividere il progetto di relazioni più solidali, atte a sostenere la realizzazione di un futuro aperto alle diversità.
L’Africa quindi ancora culla della civiltà e specchio del mondo, con le sue contraddizioni e la sua realtà poliforme.
Lo specchio, oggetto ambivalente che allo stesso tempo mostra e riflette, può deformare un’immagine o riverberarla fedelmente. La metafora dello specchio serve quindi a porre degli interrogativi sull’identità e sugli aggettivi che le vengono attribuiti. Gli organizzatori di Dak’art lamentano una deformazione dei concetti legati alla propria identità, stereotipata secondo clichè stabiliti sovente da antropologi, letterati ed economisti non africani. Utilizzando l’arte come mezzo, nel senso di medium, l’Africa vuole riappropriarsi del proprio Essere e presentarlo senza intermediari. Questa biennale si pone dunque al centro di un dibattito necessario e attuale che invita all’introspezione, al dialogo, alla solidarietà.
I temi affrontati restituiscono agli artisti la possibilità di determinare un nuovo ruolo per il continente africano e permettono di guardare alle questioni internazionali da una nuova prospettiva. “Globalizzazione, differenze culturali, libertà e democrazia, crescita economica, povertà, dignità, spirito e speranza” sono gli argomenti trattati a Dak’art che invitano ognuno ad assumere le proprie responsabilità, collettive e individuali. E spronano l’Africa a non sentirsi più vittima, a riconoscere il proprio ruolo nelle tragedie che l’hanno attraversata e ancora l’attraversano e soprattutto a essere la prima protagonista delle proprie sorti.

Biennale di Siviglia

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°5 - giugno/luglio 2008)

Biennale di Siviglia 2 ottobre 2008 - 11 gennaio 2009
Biacs3 è l’acronimo di Biennale dell’Arte Contemporanea di Siviglia, terza edizione, che avrà luogo nella capitale andalusa il prossimo autunno. Il titolo “YOUniverse” già specifica l’ambizione di incentrare l’evento sull’interdisciplinarietà tra il visitatore e la specifica situazione, ma soprattutto tra l’uomo e un ambiente in continua trasformazione, che gli appartiene sempre più ma allo stesso tempo sfugge al controllo. E proprio muovendo dalle trasformazioni del nostro tempo che Biacs decide di incentrare la propria ricerca attraverso la creazione di una nuova mappatura della Global Art. Al centro dell’osservazione i media, le nuove tecnologie e l’ambiente.
I curatori hanno deciso di presentare uno spaccato del XXI secolo convocando circa un centinaio di artisti che renderanno il contesto espositivo interattivo. I temi sui quali le ricerche estetiche saranno incentrati sono: la mobilità; l’esasperazione dell’individualismo che scaturisce dall’utilizzo massivo di nuove tecnologie; le novità ingegneristiche, come le nanotecnologie, lo sviluppo di nuove forme di architettura e il rapporto uomo-ambiente. In sintesi la Biennale si articolerà in quattro macro-aree. Innanzi tutto verrà organizzata una panoramica sulla media art, relegata, secondo gli organizzatori, ai margini del sistema dell’arte. La seconda sezione offrirà una presentazione delle più recenti tendenze dell’arte interattiva: internet art, multiplayer media e nuovi ritrovati scientifici saranno il risultato dell’abbattimento dei confini tra scienza, tecnologia e arte in un contesto che vuole riposizionare l’uomo al centro del momento esperienziale e renderlo di nuovo fautore delle proprie scelte. Il terzo settore sarà dedicato all’architettura e ai nuovi approcci che i software di ultima generazione possono fornire al fine di rendere gli spazi abitati maggiormente conviviali e adatti alla condivisione. A tal fine il quarto campo di indagine si svilupperà al di fuori della Biennale e coinvolgerà attraverso interventi urbani, tutta l’Andalusia, esplorando il suo ruolo nella scienza, nell’arte e nella tecnologia.
Il team di curatori che si sta adoperando affinché queste idee prendano forma concreta è composto da Peter Weibel, direttore generale del ZKM Centre for Art and Media of Karlsruhe, in Germania; Wonil Rhee, curatore capo del PS1MoMA 2009 e Marie-Ange Brayer direttrice del Centro Regionale di Arte Contemporanea di Orléans, in Francia.

Hong Kong: cifre da capogiro per la (s)vendita della collezione Estella

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°5 - giugno/luglio 2008)

C’è una collezione di arte contemporanea cinese che ha fatto il giro del mondo: svelata al pubblico nelle sale del Louisiana Museum nel 2007; soggetto di due importanti cataloghi pubblicati grazie al contributo di importanti istituzioni d’arte e curati, tra gli altri, da Hou Hanru, Martina Köppel-Yang and Pi Li; esposta recentemente presso l’Israel Museum di Gerusalemme, è stata interamente consegnata alla casa d’asta più famosa del mondo, Sotheby’s, che ha battuto l’asta a Hong Kong il 9 aprile. La collezione Estella era composta da duecento lavori appartenenti a sessantanove artisti. Il nucleo centrale è stato acquistato tra il 2004 e il 2007 dall’intermediario Michael Goedhuis per conto di Sacha Lainovic, direttore di WeightWatchers e del suo partner Ray Debbane. La scorsa estate la collezione è passata alla Galleria Acquavella di New York che ha poi deciso di venderla a Sotheby’s.
Numerose polemiche si sono susseguite: c’è chi sostiene che la collezione sia stata da sempre vista come un investimento di mercato, diversamente da quanto dichiarato in partenza, e che le mostre organizzate siano state allestite appositamente per aumentare le quotazioni. Per difendersi da tali accuse, Michael Goedhuis ha dichiarato a The Art Newspaper che il desiderio dei collezionisti era di dar vita a una collezione d’arte contemporanea cinese accompagnata da un catalogo dedicato che rendesse possibile la più ampia divulgazione. In origine la collezione avrebbe dovuto essere donata a un museo, ma il progetto filantropico è stato sostenuto solamente da un piccolo gruppo di collezionisti, che pare non abbiano quindi potuto accollarsi l’intero costo dell’operazione.
Pertanto, lo scorso agosto, alla chiusura della mostra presso il Louisiana Museum, si è deciso di vendere la collezione. A quel punto gli esperti Sotheby’s, interessati a sostenere il progetto di alienazione, hanno visitato l’esposizione per una prima valutazione economica.
Goedhuis ha anche dichiarato di aver contattato il Governo Cinese per proporre delle collaborazioni e per tastare il terreno cercando eventuali acquirenti, ma la questione è parsa da subito cavillosa. Si è allora battuto il terreno europeo, bussando alla porta di Bernard Arnault, magnate dell’imprenditoria e dell’haute couture francese, già finanziatore del museo privato “Fondation Louis Vuitton pour la Création”. Ma anche in questo caso, la trattativa non è andata in porto.
A settembre la collezione è stata esposta all’Israel Museum e due giorni prima della chiusura della mostra, a fine febbraio, Sotheby’s ha annunciato che la collezione sarebbe stata messa all’asta. Il direttore dei Museo di Gerusalemme, si è dichiarato estraneo alle trattative e ha ammesso di aver conosciuto il destino della collezione solamente dopo che gli accordi tra i vecchi proprietari e Sotheby’s si erano conclusi. Duro, invece, il no comment di Poul Erik Tøjner, direttore del Louisiana Museum.
Secondo Art Newspaper si tratta di una vera e propria manipolazione del mercato, ma Acquavella si tutela sostenendo che le esposizioni museali fossero un obiettivo già prefissato dai primi proprietari, i quali avevano preso accordi con le istituzioni prima del suo coinvolgimento. Tutto sommato, è pur vero che tale acquisto sia stato deciso e operato in tempi rapidissimi mentre le opere facevano bella mostra di sé a Gerusalemme. Inoltre il gallerista ha posseduto la collezione per un periodo di tempo molto ristretto, coincidenza neppure troppo ambigua, considerato che lui stesso ha dichiararò che la collezione vantava un nucleo di elevata qualità. Acquavella, a quanti hanno criticato la decisione di vendere la collezione, ha risposto che si tratta del suo mestiere. “Sono un commerciante: guadagno comprando e vendendo arte. Credo si sia trattato di un buon investimento”.
E sicuramente lo è stato: l’asta ha confermato il mercato cinese come uno dei più attivi, sia in termini di produzione artistica che di compravendita, inoltre numerosi sono stati gli acquirenti provenienti dal sud-est asiatico, dall’Europa e dagli Stati Uniti, che hanno conferito all’evento il ruolo di vetrina internazionale. 140 milioni di dollari di Hong Kong -in euro 11 milioni - il ricavato della serata, i pezzi non venduti saranno posti in asta il prossimo autunno a New York.
Il top lot è andato a “The big family n.3” di Zhang Xiaogang, battuto per 3 milioni e 865 mila euro. Si tratta di un quadro appartenente alla serie più ricercata dell’artista: “Bloodlines”. 600 mila euro per “The living word” di Xu Bing, stessa quota pagata anche per “Two Wandering Tigers” di Cai Guo-Qiang. Poco più di 700 mila euro invece per “Chairman Mao With Us” di Zeng Fanghi.
Insomma lo smembramento della maggiore collezione di arte cinese mai battuta all’asta, a dispetto delle polemiche, si è rivelato un successo monetario. Lasciate però che i comuni mortali come noi continuino a pensare che il valore della collezione superasse di gran lunga i numeri a sei cifre il cui solo pensiero ci dà le vertigini.

United artist of Italy a Saint'Etienne. Pirma tappa del progetto di Massimo Minini

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°5 - giugno/luglio 2008)

Uliano Lucas "Luciano Fabro"


United artist of Italy è il titolo di un singolare progetto itinerante concepito e realizzato da Massimo Minini, il quale ha raccolto una collezione di ritratti fotografici eseguiti dai maestri della fotografia italiana. Tuttavia non sono i fotografi i soli protagonisti del progetto: illustri personaggi del mondo dell’arte nazionale sono infatti i soggetti delle foto. In qualche modo l’arte ritrae l’arte, in una proposta di compresenze, partecipazione e ammirazioni reciproche.
Minini diede vita alla raccolta diversi anni fa, per piacere personale, ma ben presto l’idea si sviluppò e, grazie anche alle relazioni personali e professionali, si delineò un vero e proprio fermento attorno a quello che è diventato il progetto finale.
In principio a essere immortalati sono stati esclusivamente artisti italiani, in seguito però si sono scelti anche personaggi legati alla cultura del Belpaese: artisti stranieri, galleristi, scrittori...
Da Carla Accardi a Pier Paolo Pisolini, da Francesco Vezzoli a Andy Warhol, passando per Italo Calvino e Ettore Spalletti.
Di non minore importanza sono i nomi dei ventidue fotografi coinvolti: Claudio Abate, Aurelio Amendola, Gabriele Basilico, Sandro Becchetti, Gianni Berengo Gardin, Elisabetta Catalano, Giorgio Colombo, Mario Cresci, Mario Dondero, Federico Garolla, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Gianfranco Gorgoni, Mimmo Jodice, Nanda Lanfranco, Uliano Lucas, Attilio Maranzano, Nino Migliori, Ugo Mulas, Paolo Mussat Sartor, Paolo Pellion, Ferdinando Scianna.
Ora la collezione viene proposta in mostra a istituzioni e musei, per presentare uno sguardo sulla nostra cultura che sa essere nel contempo intimo e documentaristico. A far mostra di sé sono la contemporaneità e i suoi protagonisti, chi davanti alla macchina da presa, chi dietro. Una dinamicità che propone un omaggio capace di abbracciare diversi decenni di storia italiana che questi grandi fotografi celebrano e reinterpretano. Come spesso accade la fotografia è in grado di fissare un attimo che, da solo, ci permette di cogliere una dimensione inedita dell’oggetto/soggetto rappresentato. United Artist of Italy propone sfaccettature sconosciute e curiose, oltre che esteticamente ineccepibili, mostrando molto più di una somma di ritratti, riuscendo a testimoniare un intero periodo storico.
La prima tappa del progetto è appena stata inaugurata a Saint’Etienne presso il Musée d’Art Modern. La collezione, composta di 450 fotografie resterà in mostra fino alla fine di settembre ed è accompagnata da un catalogo edito da Photology.