Esplosione Transafricana. Torino, una collettiva curata da Achille Bonito Oliva


(Articolo pubblicato su Insideart.eu il 28 luglio 2011)
Arrivano dall’altro capo del mondo i sei artisti convocati da Achille Bonito Oliva per condurci lungo un viaggio nella contemporaneità che affonda le sue radici in territori lontani: Esther Mahlangu, Sud Africa; George Lilanga, Tanzania; Seni Camara, Senegal; Mikidadi Bush, Tanzania; Kivuthi Mbuno, Kenya; Peter Wanjau, Kenya. Arrivano da un continente al quale guardiamo troppo spesso con pregiudizio ed errori socioculturali, quali che siano le intenzioni che muovono la nostra valutazione. Dal “continente nero” al mito del “buon selvaggio”, dai pregiudizi razziali alle teorie antropologiche, dalla povertà economica alla ricchezza di risorse, dai temuti flussi migratori alle campagne di sensibilizzazione, dalle organizzazioni umanitarie ai concerti delle star mondiali… Tutti ci parlano dell’Africa, eccetto gli africani.


Ecco che allora un grande progetto italiano si fa portavoce di un nucleo di artisti di calibro internazionale. Il progetto, ideato dalla Fondazione Sarenco di Salò – istituzione che si occupa appunto di cultura africana, già impegnata nella Biennale di Malindi, di cui Bonito Oliva sarà per la seconda volta curatore – viene ospitato in anteprima alla Fondazione 107 di Torino per poi proseguire il viaggio in altre sedi espositive. E il viaggio, oltre a essere il destino di questa mostra itinerante, è anche il tema dell’esposizione: “transaficana” è infatti il nome della linea ferroviaria che attraversa il continente, collegando paesi e popoli profondamente diversi tra loro ma anche aggiungendo un taglio, un confine, una frontiera a un territorio dilaniato da confini imposti, disegnati sulla carta in maniera arbitraria.

Dal punto di vista artistico, convenzionalmente si parla di “arte contemporanea africana” a partire dalla seconda metà del XX secolo, ossia dal momento in cui la produzione estetica ha cominciato a rispondere a un mercato costituito in prima battuta da turisti, grandi musei internazionali e collezionisti dai gusti “esotici”. Prima di allora, la cosiddetta arte africana, in prevalenza scultorea, non aveva finalità decorative ma apotropaiche e rituali. I grandi avanguardisti dell’arte del secolo scorso persero il cuore nell’ammirazione e nella scoperta di forme e colori che presto cominciarono a trovare spazio nella pittura, nel disegno e nella fotografia europea.
Oggi, nonostante la globalizzazione del mercato e l’omologazione dei gusti, il continente africano vanta importanti accademie e scuole d’arte, musei e biennali (si pensi alla biennale di Dakar) senza per questo aver svenduto il proprio stile. Ne sono una prova le opere presentate a Torino che mantengono un fascino senza senso, una meraviglia fiabesca e una brutalità umana che raramente siamo abituati a incontrare. Non quindi “tornare alle origini” come diceva Picasso ma forse “mantenere le radici” e su queste costruire nuovi significati.

A dirla tutta, a proposito di significati, noi semplici fruitori ci avviciniamo alle opere in mostra con un misto di curiosità e stupore, umili nel riconoscere che la maggior parte dei contenuti ci sfuggiranno, lesti ci sfioreranno e resteranno lì, in superficie, bloccati dai filtri che ci impediscono la decodificazione di linguaggi mentali che non ci appartengono. Forse l’approccio giusto per gustare “Transafricana” è abbandonarsi all’ignoto, perdersi in un viaggio onirico e magico, ricco di colori e popolato da personaggi sconosciuti. La Fondazione 107, che fin dalla sua apertura ha dimostrato di saper accogliere e raccontare culture lontane, riceve e ospita in assoluta neutralità le opere esposte. La struttura ex industriale, fredda, situata in una Torino distante dal mondo, pare perfetta per l’esplosione calore che la mostra propone, senza scadere nell’esotico o nel folkloristico.

Il risultato è una mostra di artisti africani che, con approcci diversi, ci raccontano di una terra variopinta nella quale la durezza delle malattie e della povertà si abbatte su popolazioni gravate da poteri corrotti (Peter Wanjau); dove una natura selvaggia, incurante di ciò che accade nel resto del mondo, vive secondo ritmi lenti e ciclici (Kivuthi Mbuno). Seni Camara invade lo spazio con creature multiformi dai mille volti e dai numerosi occhi; rappresentanti la famiglia le sue sculture in terracotta sembrano osservarci placide e sapienti. Ancora scultura e pittura per George Lilanga che racconta un’Africa magica, popolata da una moltitudine di esseri diversi, colorati e irreverenti, che mescolano danze e magia, superstizione e mito. Esther Mahlangu ripete assiduamente forme, motivi e colori in forme astratte e ossessive, mentre Mikidadi Bush mescola ingredienti del quotidiano a miti animisti, dando vita a uno spazio mentale onirico.

Nell’allestimento ben curato, si intravede un filo conduttore e una scelta stilistica data dalla selezione curatoriale, nonché dalla proprietà delle opere, provenienti tutte dalla collezione Sarenco. Pur nella loro eterogeneità, i lavori paiono rispondere a un unico gusto estetico che, seppur con stile e competenza, porta in mostra artisti non più giovani, figli di un’eredità quasi sorpassata e ben distante dalle sperimentazioni contemporanee. Poco "brand new" l’esposizione presenta l’arte contemporanea storicizzata, interessante e utile per chi vuole avvicinarsi alle nuove emergenze partendo dal principio.

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