Le imprese e i finanziamenti alla cultura: analisi di un sistema ancora critico

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°4 - aprile/maggio 2008)

Nel luglio 2001 la Commissione delle Comunità Europee ha varato un testo legislativo comunemente detto Libro Verde con l’obiettivo, esplicitato nel titolo di “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”. L’idea di fondo si basa sulla consapevolezza che l’incoraggiamento legislativo delle pratiche di sostegno sociale porti a una crescita aziendale che compensa l’incremento dei costi, quindi a uno sviluppo commerciale e sociale che arriva a completare l’operato (sovente insufficiente) delle politiche pubbliche. La CSR – Corporate Social Responsability è diventata ormai un must per le grandi imprese e sta prendendo piede anche nelle realtà aziendali minori. Il concetto meriterebbe un’ampia trattazione, ma ai fini dei nostri obiettivi è sufficiente una spiegazione meno approfondita. Con lo scopo di promuovere la propria immagine sul territorio di riferimento o nei confronti degli stakeholder, le imprese completano i propri interessi commerciali con operazioni volontarie di stampo sociale. Si aggiunga che il campo d’azione nel quale l’azienda decide di impegnarsi dipende da ciò che la stessa vuole comunicare, dagli ambiti di intervento di business già esistenti e, non ultimo, dagli interessi filantropici di chi gestisce le politiche aziendali di responsabilità sociale. Le imprese che operano in tal senso, perseguono anche obiettivi di sviluppo delle risorse umane interne, coinvolte nell’azione di Social Responsability. I risultati immediati sono una maggior visibilità e di conseguenza una maggiore possibilità di ricevere finanziamenti e di instaurare collaborazioni proficue. Le imprese – commerciali e non - perseguono finalità di tipo etico-sociale che contribuiscono a creare quella cultura d’impresa che legittima la posizione dell’azienda in seno alla società e all’economia nel suo insieme. Nella nuova economia il vantaggio competitivo si basa anche sulle idee che il marchio suggerisce, sulla capacità di associare il proprio logo a universi simbolici in grado di comunicare valori non solo commerciali.
Le attività di sponsorizzazione culturale e mecenatismo, strumenti d’azienda trasversali al marketing, rientrano a pieno diritto nella Responsabilità Sociale d’impresa, tanto che ultimamente si parla di Responsabilità Culturale d’Impresa per indicare quelle attività di impegno volontario che vanno a sostegno delle attività culturali. In particolare la sponsorizzazione sta vivendo un periodo di incremento e rappresenta per i soggetti coinvolti un’opportunità di crescita: il settore culturale ha bisogno di risorse economiche che il settore pubblico non è in grado di erogare, l’impresa ha bisogno di nuovi fronti comunicativi sui quali agire e attraverso i quali migliorare il posizionamento del proprio brand. E ovviamente la politica ha l’interesse a promuovere lo sviluppo di tali sinergie affinché la comunità ne tragga vantaggio e i privati intervengano laddove il settore pubblico è carente.
Purtroppo, sovente sono proprio i maggiori beneficiari di queste collaborazioni a essere impreparati: imprese e istituzioni culturali non sono ancora capaci di muoversi in maniera efficace in questo nuovo territorio. L’operatore culturale si rivela spesso non all'altezza di dialogare con i protagonisti del mercato, incapace di usare strumenti di persuasione e marketing, ancora troppo legato alla logica statalista e del sussidio e spesso troppo snob per evolversi con il sistema. D’altro canto le imprese preferiscono finanziare categorie di eventi dal sicuro impatto mediatico, tralasciando i progetti più piccoli, e sostengono la cultura in maniera sporadica, non continuativamente. Inoltre vengono spesso tacciate di perseguire scopi sociali per “lavarsi la coscienza” e nascondere operazioni commerciali considerate poco etiche da consumatori sempre più attenti e consapevoli.
Ciò che manca quindi è la reale volontà di incontrarsi e di negoziare soluzioni vantaggiose per i diversi attori in gioco.
Se si riflette sulla vastità del patrimonio nazionale e delle nuove produzioni, la situazione italiana denota un’anomalia diffusa, non determinata semplicemente da lacune legislative, come spesso affermato. È pur vero che rispetto ad alcune tradizioni nazionali di stampo anglosassone, il sistema tributario italiano pare non sostenere abbastanza erogazioni, sovvenzioni e lasciti, ma non bisogna dimenticare che la filantropia in alcuni paesi è considerata una dote doverosa. La legislazione riflette quindi le convinzioni sociali che antropologicamente si sono sedimentate.
Fortunatamente la Costituzione Italiana riconosce già all’interno dei propri Principi Fondamentali l’importanza della cultura e della sua promozione, aprendo così la strada all’elaborazione di successivi testi legislativi (in particolare artt. 9, 33, 41 Cost.). La sponsorizzazione è attività contemplata dalla legge Mammì del 1990, da una risoluzione del Ministero dell’Economia del 1992 (n. 9/204 del 17/06/1992) e dal più recente Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Inoltre numerosi testi normativi degli ultimi quindici anni si sono occupati di disciplinare il settore. Purtroppo però, soprattutto per quanto concerne gli aspetti legati alla de-fiscalizzazione, la materia è ancora frammentata, disorganica e, quel che più conta, poco utilizzata. Il sistema tributario risulta inadeguato a una situazione che si è evoluta in breve tempo e prevede disparità di trattamento in base alla natura del donatore e del beneficiario, o meglio dello sponsor e dello sponsee.
Eppure, a fronte di una presa di coscienza del legislatore (seppur ancora insufficiente), i diretti interessati spesso ignorano le possibilità esistenti. Da uno studio relativo al Premio Impresa e Cultura 2005 di Bondardo Comunicazione, si evince uno scarso utilizzo degli strumenti di defiscalizzazione: su un totale di 167 aziende solo il 46% ne aveva conoscenza e di queste 89 imprese solo 16 si sono avvalse degli incentivi vigenti.
Gli operatori culturali dovrebbero essere i primi a specificarsi in questa direzione, per disporre di strumenti utili alle ormai imprescindibili attività di fund raising. Sono rare le istituzioni che possono vantare un vero e proprio investimento di risorse per l’attività di ricerca fondi. Le risorse umane impiegate, nella maggior parte dei casi, hanno altri compiti e si riciclano in attività nuove senza tuttavia averne le competenze e, ciò che più conta, senza credere realmente in ciò che viene fatto. L’atteggiamento che viene denunciato da alcuni studiosi della materia è di remissione e pudica vergogna, come se chiedere il finanziamento per un progetto equivalesse a fare l’elemosina. Non si focalizza a sufficienza, invece, a livello comunicativo quali possano essere i vantaggi derivanti dalla collaborazione, quale l’importanza del progetto e soprattutto quale il valore che tali investimenti assumono se gestiti nel lungo periodo (in contrasto quindi le cosiddette partecipazioni spot).
A discapito però di tante criticità, derivanti probabilmente da un legame ancora forte con gli status quo esistenti, la situazione italiana è in evoluzione.
A investire maggiormente sono le aziende di grandi dimensioni, in particolare gli istituti di credito e le fondazioni bancarie (si consideri che i mecenati più munifici restano gli enti pubblici e le fondazioni). La cultura attrae risorse, anche se in misura nettamente minore rispetto ad alcuni segmenti sociali (assistenza, ricerca) e sportivi.
L’UPA (Utenti Pubblicità Associati) è l’organismo costituito dalle maggiori aziende che investono in pubblicità e ogni anno pubblica un importante studio di settore sui trend nazionali. Per il 2007 si è calcolato che l’investimento delle aziende in campo culturale sia cresciuto del 2,8%. Per il 2008 è previsto un aumento del 2,9%, anche se, considerata la situazione economica internazionale degli ultimi giorni, si tratta forse di un dato ottimistico o comunque suscettibile di variazioni. Purtroppo alcuni settori restano ai margini degli interessi dei privati: in particolare la danza e il teatro. Più ampio il sostegno alla musica, alle mostre e ai convegni, anche se la maggior parte dei finanziamenti è dedicata agli interventi strutturali (di per sé anche i più costosi e visibili nel lungo periodo) quali il restauro di momenti, il recupero architettonico e la creazione di nuovi spazi.
Comparando i dati di diversi studi di settore, emerge comunque un sistema non ancora in grado di esprimere le proprie potenzialità, che utilizza in maniera approssimativa gli strumenti a disposizione e che non ha ben chiari quali siano i reali obiettivi da perseguire. Il messaggio che ancora non passa è che l’investimento in cultura non è alternativo ad altre forme di comunicazione, ma si differenzia e può diventare un vero e proprio strumento legato alle politiche di brand, elemento cardine della catena del valore di un'azienda e di una collettività. Il sostegno alla cultura, non perseguendo solo finalità meramente commerciali, divulga principi quali sensibilità, partecipazione attiva alla vita sociale, innovazione, emozione etica ed estetica... insomma una serie di valori che consumatori attenti ricercano e che imprese all'avanguardia possono e devono veicolare. La sponsorizzazione culturale non è semplice contribuzione economica (anche se purtroppo in Italia è ancora così) ma deve impegnare attivamente gli organi aziendali che vengono in contatto con un mondo ricco di contenuti di creatività e innovazione che non può che arricchire l'impresa.
La sponsorizzazione ideale è quella che vede i diversi soggetti condividere uno stile e degli obiettivi, che viene pianificata sul lungo periodo e valutata come un'attività imprescindibile e bisognosa di attenzione. La partnership utile coinvolge l'azienda non solo utilizzandone il logo (e il denaro), ma permettendole di contribuire alla creazione di contenuti complementari, rendendola parte attiva del progetto. Inoltre, sponsor e sponsee devono essere sullo stesso piano, pronti a difendere la propria autonomia e a non piegarsi a politiche troppo rigide di marketing aziendale, non adatte al settore culturale. Le strategie utilizzate con successo in un dato settore, non sortiranno gli stessi felici effetti in contesti differenti; il mondo culturale non deve e non può appiattirsi su schemi di manager rampanti che vorrebbero snaturare il settore e le sue peculiarità. Diviene necessaria la conoscenza di un approccio nuovo, che sappia adattare vecchi strumenti a nuove realtà.

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