Specchio riflesso: Artlab 08

(nota: questo articolo è stato pubblicato su Artkey n°7 - novembre/dicembre 2008)

Artlab: dialoghi intorno al management culturale

Il 26 e 27 settembre si è svolta la terza edizione di Artlab, momento di incontro per operatori, manager e politici che, con fatica e passione, operano nel settore culturale.
L’evento, organizzato dalla Fondazione Fitzcarraldo di Torino con il sostegno della Regione Piemonte, quest’anno ha superato se stesso: oltre 400 partecipanti, di cui circa 250 iscritti e un centinaio di relatori, hanno preso parte alla “due giorni torinese”, ospitati nella Casa del Teatro Ragazzi e Giovani. Tema dell’edizione 2008: l’innovazione, sviluppato in una prima giornata di sessioni plenarie alternate a sedute parallele e in una seconda giornata organizzata in seminari. Una vera e propria maratona di racconti, punti di vista, dibattiti.
Personalmente, durante la seconda giornata ho saltellato da un seminario all’altro per cogliere l’aspetto collettivo e le dinamiche di gruppo, estrapolare suggestioni, ascoltare frasi, riflessioni e proposte spontanee scaturite in seno ai diversi discussant groups. Mi sono anche permessa di girare tra i tavoli del buffet allestito durante la pausa pranzo per cogliere i commenti dei partecipanti e domandarne l’opinione. Ebbene, l’entusiasmo che ho rilevato mi ha colpito: nessun deluso, poche critiche e tanta soddisfazione caratterizzavano gli umori dei miei “intervistati”. I relatori, dal canto loro, sciorinavano lodi - durante i propri interventi e nei momenti meno istituzionali - sottolineando come Artlab rappresenti un caso unico in Italia e come sappia radunare eccellenze diverse. Meno male, finalmente un po’ di ottimismo, considerato che buona parte degli interventi in aula sono stati caratterizzati da piagnistei e lamentele.
Il paradosso di Artlab è stato proprio questo: una serie di relatori presentati come esempi di buona gestione e modelli di riferimento che hanno trascorso buona parte del tempo a fare l’elenco di ciò che non funziona. Se i grandi si lamentano chissà quale atteggiamento dovrebbe caratterizzare i piccoli… ma forse i piccoli non hanno tempo per compiangersi, impegnati come sono a tirarsi su le maniche!
Ad Artlab si sono incontrati i primati del settore culturale italiano, colonne portarti di un sistema sbilenco, che però non hanno saputo essere realmente innovativi. L’innovazione promessa dal convegno è stata la grande assente: somministrare una serie di buoni esempi non significa fornire le risposte alle numerose domande che caratterizzano il nostro settore. Inoltre una sorta di narcisismo competitivo ha aleggiato un po’ ovunque: diversi gli “sbrodoloni” bravi a intessere le lodi del vicino a ad autocelebrarsi; in molti hanno invitato gli astanti a far proprio il motto “sbagliando si impara” ma nessuno ha raccontato i propri errori. Le difficoltà paiono sempre cadere dall’alto, conseguenza di catastrofi imprevedibili o di politiche che si accaniscono sullo sventurato operatore culturale. Ma chi sbaglia, dove sbaglia? E come si può imparare dagli errori?
Sicuramente, a colpi di lodi e piagnistei, sono venute fuori le caratteristiche del sistema italiano: i punti di forza (rari) e le criticità.
Argomento preferito: i tagli alla cultura. Come negarlo? Artkey e altri magazine di settore, nonché i mass media, ne hanno parlato ampiamente; mi permetto quindi di esaurire l’argomento riportando una frase che Roberto Grossi ha condiviso con gli intervenuti ad Artlab: per lavorare “mancano le condizioni materiali: risorse e luoghi prima di tutto. Il taglio è l’assenza totale di un disegno. La cultura fa bene, [senza risorse] i luoghi inesorabilmente diventano avulsi e si arriva al degrado”.
Intanto pare finalmente chiaro ai più che i modelli di management non possono essere importati e che la gestione delle IAC (istituzioni che si occupano di arte e cultura) non si può appiattire sul modello amministrativo delle aziende. In controtendenza con quanto detto a più voce fino un decennio fa, finalmente anche in Italia i modelli di Kotler e Kotler paiono superati, perlomeno nella teoria. Rimangono però attivi da più parti gli approcci alla Florida, con meccanismi paranoici che Luca Zan definisce “sindrome da auditel”; risulta qui necessario precisare che tutti gli intervenuti ad Artlab si sono dichiarati distanti da tali orientamenti che paiono aver attecchito in particolar modo in singole istituzioni, prima nel trevigiano, poi nel bresciano e a macchia sul resto della penisola. In Italia un certo snobbismo intellettuale, per quanto per alcuni aspetti controproducente, ha perlomeno preservato una mentalità che pare essere più orientata alla qualità che alla volgarizzazione numerica. Muovendo da qui, bisognerebbe però comprendere che anche le regole del diritto amministrativo non possono essere calate dall’alto in maniera univoca. Il contesto nel quale ogni IAC si muove è un contesto esclusivo, con caratteristiche che non possono continuare a essere ignorate: l’epoca delle ricette uniche deve volgere al termine, il management culturale non può permettersi il lusso di semplificare e attenersi ad approcci generalizzanti. Non è un’evoluzione semplice, considerato che le caratteristiche stesse sul quale le legislazioni si fondano sono l’uguaglianza e l’univocità della fattispecie. Il manager culturale si trova oggi costretto a entrare nella testa del legislatore, deve trasformarsi in giurista e raccapezzarsi tra commissariamenti, codici frammentati e norme cavillose. Si rendono quindi necessari nuovi strumenti legislativi, caratterizzati da una maggior flessibilità e differenziazione e passibili di interpretazione. Una certa autonomia è quindi auspicabile, ma ciò non significa che il settore pubblico possa essere un nuovo, ignavo, Ponzio Pilato. Da più parti è stata criticata la voracità dello Stato che, se da un lato propone deleghe e autonomie nella gestione delle (scarse) risorse dall’altro tende a fagocitare il sistema attraverso una serie infinita di paletti e vincoli che limitano il lavoro dei professionisti.
Altro argomento di discussione è stata la constatazione del persistere di determinati provincialismi e commistioni con la politica che altro non producono se non la replica di un modello clientelare basato, ancora troppo spesso, sulle preferenze e non sulle competenze. Inoltre le politiche culturali sono in ritardo rispetto alla società: ne è prova il fatto che ancora non si siano rese conto che, per una buona fetta dei cittadini, l’arte contemporanea è diventata una passione e che pertanto andrebbe sostenuta e seguita con particolare attenzione. L’azione politica è caratterizzata da cicli brevi che si contraddistinguono attraverso sensazionaliste sequenze spot; diversamente la gestione culturale, per ottenere risultati validi, sia dal punto di vista produttivo sia da quello - sacrosanto - educativo, deve essere lungimirante e protesa alla programmazione sul lungo periodo. Durante il convegno qualcuno ha parlato del bisogno di avere “pensieri lunghi” e personalmente credo che si tratti di uno dei concetti più importanti tra quelli emersi, pur nella disarmante semplicità.
All’unanimità è stato condiviso anche lo spauracchio per altre due bestie nere che affligono il sistema nazionale e che riguardano i settori della formazione del personale e della valorizzazione delle risorse umane; anche se, a ben vedere, si tratta di due facce della stessa medaglia.
Tra le carenze dell’italianità spiccano la scarsa mobilità e la quasi totale assenza di formazione continua: senza il confronto e la crescita professionale il sistema tende al suicidio organizzativo. È necessario investire sul lungo periodo permettendo al personale di formarsi al di fuori delle istituzioni nelle quali opera. Soprattutto è indispensabile far spazio alle nuove competenze, rappresentate in prima istanza dai giovani che sono tanti, preparati e volonterosi. Il cambiamento e l’innovazione non possono generarsi nella staticità. La turnazione del personale e il rinnovo generazionale non sono un lusso: senza questi presupposti l’universo delle possibilità è ridotto e viene osservato costantemente attraverso lenti che distorcono. La rigidità degli schemi reiterati deve lasciar posto alle variabili dipendenti e il lavoro deve essere considerato una di queste. Emiliano Paoletti e Valter Vergnano si sono anche permessi di andare oltre e di parlare di condivisione della mission e coinvolgimento del capitale umano: prima di pensare a valorizzare le risorse umane bisognerebbe imparare a conoscere e rispettare gli individui con i quali si lavora.
A proposito di gestione del personale è capillarmente diffuso il problema del sott’organico, ma non si può pensare di fronteggiarlo senza una rivoluzione dei ruoli; “pochi ma buoni” dovrebbe essere il motto da adottare, preso atto che in questo momento storico la carenza di personale continua a caratterizzare il sistema.
Tutti questi argomenti - e molti altri - sono venuti alla luce durante le sessioni di Artlab - non che prima fossero sconosciuti - ma nella realtà dei fatti la rosa dei relatori altro non è stata che lo specchio di quanto affermato. Non c’è illuminismo in un convegno di maschi, bianchi, sessantenni, statici, nella maggior parte figli di scelte politiche che sproloquiano lodando la mobilità e gli investimenti in risorse umane: c’è ipocrisia! Che Michele Trimarchi sostenga che gli studenti che collezionano titoli di studio post universitari trovino lavoro qualora siano “bravi e volenterosi” è una banalità tale che sorge spontaneo domandarci se negli atenei bolognesi non si leggano i giornali.
Tra i relatori: pochi i giovani (per lo più brillanti), rari gli stranieri e vergognoso il numero delle donne (circa un terzo degli intervenuti). Ancora non è chiaro il motivo per cui le donne nel settore culturale siano relegate in maggioranza al lavoro negli uffici stampa e promozione che, per quanto fulcri dell’attività strategica, non possono rappresentare un’univoca possibilità.
Artlab si è quindi confermato specchio del sistema, senza ipocrisie si è rivelato un arcipelago attorno al quale far ruotare una serie di temi attuali. Sicuramente è l’occasione di incontro e di dialogo tra diversi settori; innescare livelli di ascolto può comunque portare conseguenze positive nonché contribuire alla formazione di un network oggi indispensabile.
Il target di riferimento è sicuramente stato centrato: operatori del settore culturale che già lavorano e che del management culturale non hanno quasi nozioni.
Per tutto coloro che - probabilmente giovani e donne - hanno già investito in una formazione d’eccellenza, Artlab si rivela superfluo presentando modelli che dovrebbero già essere assodati, ma che purtroppo in Italia risultano ancora all’avanguardia.
Mi piace concludere con un’amara citazione di Andrea Bellini, riferita all’arte contemporanea, ma che credo si possa ben estendere al resto del settore: “Siamo seduti su una miniera e non sappiamo che farcene”.

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